CONTROSCENA

Ronconi, il teatro della conoscenza


Oltre che un maestro indiscusso e un didatta straordinario, è il sovvertitore implacabile di ogni tradizione, il sacerdote di un rito registico assolutamente inedito e innovativo, l'inventore di uno stile di recitazione unico, il rabdomante infallibile capace di estrarre preziose gemme drammaturgiche persino da testi di matematica e d'economia, l'autorevole direttore d'istituzioni prestigiose (ieri della Biennale Teatro di Venezia e degli Stabili di Roma e Torino, oggi del Piccolo di Milano), il realizzatore di progetti stratosferici (vedi il «Domani» varato nel 2006 per le Olimpiadi della Cultura), il mitico creatore di spettacoli dalla lunghezza «monstre» (pensiamo solo all'«Ignorabimus» di Arno Holz, dodici ore di durata), il rifondatore di uno spazio scenico finalmente sottratto all'immobilità, il Tiresia degli allestimenti collegati all'attualità.   Ma lui, Luca Ronconi, settantanove anni e da quasi sessanta in palcoscenico (circa dieci come attore e poi come regista), respinge drasticamente non solo tutte le definizioni e tutti i titoli di cui sopra, bensì, addirittura, l'istanza primaria posta alla base del libro che adesso lo racconta: quel «Teatro della conoscenza» scritto insieme con Gianfranco Capitta e pubblicato da Laterza. Perché, dice Ronconi, «l'esperienza, interessante mentre la si fa, risulta generalmente arida quando la si ricorda».   Non si tratta, però, di snobismo, né soltanto della ritrosia ch'è una componente di spicco del suo carattere. Ronconi dà prova, nella circostanza, di una lucidità perfettamente fusa con la saggezza. Sicché, ben a ragione, potremmo interpretare quanto afferma alla luce e della convinzione di Cardarelli («La speranza è nell'opera. / Io sono un cinico a cui rimane / per la sua fede questo al di là. / Io sono un cinico che ha fede in quel che fa») e del monito lanciato da Peter Brook quando, a Taormina, gli consegnarono nell'89 il Premio Europa per il Teatro («Bisogna sempre mettere una distanza tra sé e quello che si fa. E non bisogna essere innamorati del proprio mestiere, altrimenti non ci si accorge degli errori che si commettono nell'esercitarlo»).   Il libro in questione offre nella prima parte un'intervista di Capitta con il regista, articolata nelle sezioni «L'invenzione del teatro», «Teatro come scuola» e «Lo spazio e altre dimensioni», e nella seconda l'elenco degli allestimenti firmati da Ronconi (più o meno centoventi titoli teatrali e cento opere liriche), accompagnato da puntuali schede informative e non meno precisi commenti critici. E davvero non c'è che l'imbarazzo della scelta nel pescare qualche esempio, sia fra le dichiarazioni dell'intervistato che fra gli spunti forniti dalle domande dell'intervistatore.   Partendo dal titolo del libro, poniamo, Ronconi osserva che il mestiere del teatro («il più bello del mondo, e anche salvifico per chi ha bisogno di salvarsi») lo considera «un modo e un processo di conoscenza». E aggiunge: «Non amo fare cose perché so già come farle: mi piace farle per vedere se le so fare, e per scoprire cosa mi fa conoscere il fatto di farle. Il bello del teatro è sperimentare e scoprire, non applicare un metodo». E molto opportunamente, dal canto suo, Capitta sottolinea in proposito che appunto questa sensibilità e questo desiderio di conoscenza del mondo ha consentito tante volte a Ronconi di presentare uno spettacolo proprio nel momento in cui i suoi temi erano al centro degli interessi di tutti: come nel caso de «Gli ultimi giorni dell'umanità», dato al Lingotto di Torino esattamente nei giorni in cui esplodeva la prima guerra del Golfo.   Eccolo, il Tiresia al quale ho accennato in apertura. E poi, gettando appena un rapido sguardo sulla mappa delle regie di Ronconi, non si può non rievocare almeno il celeberrimo «Orlando furioso» e, giù giù, «Orestea», «Utopia», «La torre», «Re Lear», «Lolita»... fino al vertiginoso «Infinities» del 2002, che metteva in scena, nientemeno, i cinque paradossi dell'astrofisico Barrow, dando allo spettatore la possibilità di ricominciare, per l'appunto all'infinito, il percorso fra gli episodi ad essi relativi. Però, commenta il regista con l'ultimo guizzo di una salutare autoironia, la deambulazione può anche servire «per guadagnare l'uscita, oltre che per seguire lo spettacolo».                                          Enrico Fiore(«Il Mattino», 24 ottobre 2012)