CONTROSCENA

In quella scatola il testamento di Eduardo


La sera del 5 maggio 1985, al termine de «La grande magia» da lui allestita al Piccolo, Giorgio Strehler lesse al proscenio il pensiero che Eduardo (avvicinandosi alla morte, precisò il regista triestino) aveva scritto proprio in merito a quella commedia. Rivolto al mare, diceva: «Ho voluto parlarti con i tuoi stessi suoni confusi, con i tuoi colori, con il tuo profumo, con la luce della tua fosforescenza e il buio dei tuoi abissi».   Ma, in sede di elenco dei personaggi, il testo de «La grande magia» dice a sua volta che è il pubblico a dover fingersi mare. Possiamo, allora, stimare che risieda nel pensiero in questione (e, appunto, nella commedia a cui esso si riferisce) il vero testamento di Eduardo. E d'altra parte, non possiamo prescindere dalla definizione che Eduardo attribuì a «La grande magia» presentandone l'edizione televisiva del '64: «la commedia che forse mi sta più a cuore e che mi ha dato più dolore».   Evidentemente, la sofferenza si riferisce al fatto che Eduardo non volle più riprendere «La grande magia» dopo l'insuccesso che la commedia aveva ottenuto al debutto del '48, mentre la predilezione si spiega con la coscienza e l'orgoglio di aver dimostrato con «La grande magia» - che adesso ha aperto al San Ferdinando, per la regia di Luca De Filippo, la stagione dello Stabile di Napoli - una perfetta padronanza della lezione appresa da quel Pirandello che Eduardo ha sempre, e dichiaratamente, considerato il suo maestro. E valga, in proposito, il significativo lapsus freudiano in cui Strehler incappò nel corso della prima lettura del testo fatta al Piccolo insieme con gli attori. Disse: «Questa è una delle commedie più amare di Pirandello».   Infatti, qui tutto ruota intorno alla scatola che lo scalcagnato prestidigitatore Otto Marvuglia consegna al marito cornuto Calogero Di Spelta: il quale preferisce credere che - come gli ha detto il mago - vi sia effettivamente nascosta sua moglie Marta, in realtà - come lui sa - scappata con l'amante; e perciò non l'apre. Quella scatola, insomma, è l'equivalente del presepe di Luca Cupiello. E rimanda direttamente alla corona imperiale dell'Enrico IV pirandelliano: ossia al perenne e disperato tentativo di fissare la vita, ch'è un susseguirsi di momenti di disgregazione, in una Forma unica, data per sempre e per sempre riconoscibile.   In più, Eduardo calca il piede sulla parallela ed eterna illusione del teatrante che, per l'appunto, il teatro possa costituire un risarcimento sulla vita o, almeno, riesca ad entrare in gara con essa. Ed è proprio sulla dimensione della teatralità (e addirittura sull'esibizione della macchina teatrale) che si fonda la regia di Luca De Filippo: come sottolineano, poniamo, da un lato l'accentuazione macchiettistica dei personaggi e le palme di cartone piazzate nel giardino dell'albergo Metropole e dall'altro l'«americana» coi proiettori a vista e il viavai dei tecnici. E, di conseguenza, appare assolutamente funzionale il fatto che tra le due versioni del testo - quella originale scritta a mano da Eduardo in camerino e quella «ufficiale» pubblicata da Einaudi - Luca punti sostanzialmente sulla prima, in cui più ampia e trascinante risulta la presenza del dialetto.   Infine, tutti convincenti gl'interpreti: a Luca De Filippo, che trasforma Otto Marvuglia in un gelido prototipo degl'imbonitori cialtroni di oggi, fa da contraltare un Massimo De Matteo che impone a Calogero Di Spelta un doloroso pellegrinaggio dal grottesco alla follia; e accanto ai due protagonisti, son da citare, fra i comprimari, almeno Carolina Rosi (Zaira), Nicola Di Pinto (Arturo Recchia e Gennarino Fucecchia), Giovanni Allocca (il brigadiere di polizia e Oreste Intrugli) e Gianni Cannavacciuolo (Gervasio Penna e, davvero non caso «en travesti», Matilde).                                                   Enrico Fiore(«Il Mattino», 27 ottobre 2012)