CONTROSCENA

L'ambiguo rapporto fra Stalin e Bulgakov


Relegato ai margini come cittadino e messo all'indice come narratore e drammaturgo, il 28 marzo 1930 Michail Bulgakov scrisse a Stalin una lettera in cui chiedeva che gli fosse restituita la libertà di scrivere o gli fosse concesso di espatriare o, almeno, gli fosse consentito di lavorare in teatro come regista o attore, ma anche come semplice comparsa o tecnico di scena. E il 18 aprile Stalin gli telefonò, per fargli la promessa, che mantenne, di un impiego al Teatro d'Arte. Da quel momento Bulgakov fu un solerte, leale e, soprattutto, assai prudente funzionario. Mentre Majakovskij aveva preferito spararsi un colpo di pistola.   Ecco, il senso di «Lettere d'amore a Stalin» - la commedia di Juan Mayorga presentata nella Sala Assoli per la regia di Tommaso Tuzzoli - sta tutto nel titolo: l'autore, uno dei maggiori drammaturghi spagnoli di oggi, da un lato moltiplica la missiva citata e dall'altro evoca l'ambiguità del rapporto fra Bulgakov e il compagno Josif Vissarionovic. Non una sola lettera, infatti, scrive a Stalin il Bulgakov di Mayorga, ma centinaia, in un insopprimibile bisogno d'essere (appunto) amato e (contemporaneamente) stimato da lui. Un bisogno che lo porta addirittura a «vederlo», Stalin, e a farsene consigliare nella stesura di quelle lettere.   Ha ragione, Mayorga. E per mio conto ricordo che Bulgakov arrivò a scrivere una commedia, «Batum», dedicata alla vita del giovane Stalin. Ma Stalin ne proibì la rappresentazione, osservando: «Tutti i bambini e tutti i giovani sono uguali. Non bisogna mettere in scena una commedia sul giovane Stalin». Almeno in quella circostanza, dunque, Stalin fu migliore di Bulgakov.   Ebbene, direi che tutto questo Tuzzoli non avrebbe potuto sottolinearlo meglio. Non senza ironia, nel suo spettacolo Stalin funziona, insieme, come un «doppio», uno specchio e una sorta di «dàimon», lo spirito-guida socratico: pilota la mano di Bulgakov che gli verga quelle innumerevoli lettere, dà l'attacco delle battute a lui e alla moglie, imita, addirittura, il rumore dei tasti della macchina per scrivere. E non meno adeguati risultano gl'interpreti: Silvio Laviano (Bulgakov), Peppe Papa (Stalin) e Sabrina Jorio (Bulgakova).   Alla fine, Bulgakov resta completamente nudo ad annaspare nel vuoto: inerme e arreso a un tempo. Mi sembra la metafora della condizione in cui languono (o si adagiano) molti degli intellettuali (e soprattutto dei teatranti) di oggi, divisi, per l'appunto, fra la penuria e l'ossequio o la condiscendenza verso il potere.                                       Enrico Fiore(«Il Mattino», 27 novembre 2012)