CONTROSCENA

Macbeth nella selva dei mai nati


Dico subito che quest'allestimento di «Macbeth» - diretto da Andrea De Rosa e presentato al Bellini dagli Stabili di Torino e del Veneto - conduce direttamente al cuore segreto del testo, ossia alle (spessissimo trascurate) implicazioni ontologiche del celeberrimo plot: la «breve candela» s'era già spenta, e molto, molto prima che glielo chiedesse il crudele usurpatore del trono di Scozia; anzi, per essere più precisi, non s'era mai accesa.   Qui, infatti, tutto è - per l'appunto - già accaduto (nel senso che non poteva non accadere), e addirittura a partire dal concepimento: poiché il capolavoro shakespeariano in parola si configura come una metafora estrema della disgregazione e della degradazione inevitabilmente connesse al viaggio esistenziale; e i suoi personaggi, in altri termini, non sono che ignari fantaccini arruolati, come ricorda il Portiere, nell'esercito infinito di quanti (gli uomini senza eccezioni) percorrono «il fiorito sentiero» della vita solo per arrivare al «falò eterno».   Sì, cominciamo a morire nel momento stesso in cui nasciamo. E di conseguenza, nello spettacolo di De Rosa dilagano feti morti, giusto l'inizio del viaggio esistenziale votato a finire nel nulla, e bambolotti, la forma (il sogno dell'innocenza) in cui ci s'illude di poter bloccare la trasformazione di quel viaggio nel processo di disgregazione e degradazione accennato.   Le stesse «Fatidiche Sorelle» - le tre Streghe che, poi, sono evidentemente una riedizione delle Parche - si presentano come bambole, sedute sul divano del soggiorno di Macbeth e della sua Lady accanto all'abat-jour e alle bottiglie di liquore. E due, specialmente, sono le sequenze che icasticamente illustrano tutto questo. Nella prima, a Banquo che, come un disco rotto, insiste a ripetergli: «Il tempo incalza», corrisponde un Macbeth nevroticamente perso a sbaciucchiarsi un altro di quei bambolotti (giacché, qui, il tempo della storia viene schiacciato dal «temps intérieur»); e nella seconda, complementare, la spada di Macbeth rotea, invece che tra gli alberi della foresta di Birnam dietro cui si nascondono i soldati di Malcolm, Siward e Macduff, appunto in una selva di feti morti, che pendono dall'alto come sanguinanti stalattiti del Destino.   Splendidi, infine, il Macbeth di Giuseppe Battiston e la Lady di Frédérique Loliée. E, fra gli altri, citerei almeno Paolo Mazzarelli (Banquo) e Gennaro Di Colandrea (Seyton). Insomma, uno spettacolo benedetto da un acume alla Ronconi e da una visionarietà alla Nekrosius.                                         Enrico Fiore(«Il Mattino», 6 dicembre 2012)