CONTROSCENA

Quell'ispettore è la voce della coscienza


Nel bel mezzo di una festa in seno a una ricca famiglia della borghesia industriale piomba all'improvviso l'ispettore di polizia Goole. Porta la notizia del suicidio di una giovane, Eva Smith, e a poco a poco fa venire a galla la responsabilità che ne ha, in qualche modo, ciascuno dei partecipanti al convito: il capofamiglia Arthur Birling licenziò Eva dopo uno sciopero, la figlia Sheila brigò perché fosse cacciata dal negozio di moda in cui aveva trovato lavoro come commessa, il genero Gerald Croft ne divenne l'amante comprandola dopo che s'era ridotta alla fame, la moglie Sybil le rifiutò l'appoggio del suo comitato di beneficenza e, per concludere, il figlio alcoolizzato Eric la mise incinta.   Senonché, alla fine - mentre si è appena scoperto che non c'è stato alcun suicidio e che non esiste alcun ispettore Goole - ecco che bussa alla porta un altro ispettore di polizia, chissà se stavolta reale. E dunque «Un ispettore in casa Birling», la celebre commedia di John Boynton Priestley che si replica al Diana, rivela - ben al di là dell'impianto da «mistery play» alla Agatha Christie - intenti e «messaggi» considerevoli: l'afflato moraleggiante (quel falso ispettore rappresenta, indubbiamente, la coscienza collettiva) esemplificato dalla battuta: «Dobbiamo dividerci qualcosa al mondo, se non altro la nostra colpa», il carattere metaforico del testo (l'azione è ambientata nel 1912, quando il flagello della prima guerra mondiale stava per abbattersi sulle «magnifiche sorti e progressive» sognate dal capitalismo) e, «last but not least», l'ascendenza pirandelliana della struttura drammaturgica in questione (vedi il tema scopertissimo della verità multipla e inafferrabile).   A tutto questo, poi, vanno aggiunte la scrittura brillante ch'è tipica dei commediografi anglosassoni e la «scomposizione del tempo» ch'è, invece, tipica di Priestley. E bisogna dire che la regia di Giancarlo Sepe illumina un simile quadro come meglio non si potrebbe, sul filo di una precisione intinta nel sarcasmo: basta por mente, tanto per fare qualche esempio, al grande albero (l'esterno, ovvero la storia e la società) che infila i suoi rami nel soggiorno dei Birling, all'occhiuto viavai della cameriera (lo sguardo dal basso del «valet de chambre») e alle volute di fumo che di tanto in tanto serpeggiano in quel soggiorno (la nebbia dei cimiteri cari a Thomas Gray).   Corretto, infine, il cast, guidato da  Paolo Ferrari (Goole) e Andrea Giordana (Arthur Birling). Insomma, uno spettacolo di consumo, ma una volta tanto non banale.                                                        Enrico Fiore(«Il Mattino», 12 dicembre 1912)