CONTROSCENA

Orlando confuso fra Dante e il sesso


«Dice le cose più sublimi senza sforzo». Così Voltaire, nel «Dizionario filosofico», elogia il Ludovico Ariosto dell'«Orlando furioso». Mi pare che, invece, «Furioso Orlando» - lo spettacolo in scena al Nuovo - dica le cose più modeste con uno sforzo immane.   Non diversamente, infatti, si può inquadrare il tentativo dell'autore dell'adattamento e regista, Marco Baliani, di ridurre la monolitica complessità del «Furioso» all'amore di Orlando per Angelica e a quello fra Ruggero e Bradamante, per giunta pretendendo di convincerci che la pazzia di Orlando è «la stessa che riempie le nostre quotidiane cronache, con donne che finiscono la loro vita per mano di uomini che dicono di amarle perdutamente».   In proposito, mi limito ad osservare che il «Furioso» si fonda sull'inestricabile intreccio fra una nuova (rispetto alla produzione precedente dell'Ariosto) attenzione verso la realtà e la coscienza dell'impossibilità di veder realizzati, in quella realtà, i grandi ideali umanistici della «virtus» che domina la fortuna e della saggia razionalità che regola le passioni. È in tal senso che l'amore viene visto dal poeta come «insania», al pari della politica e della vita sociale. E la letteratura diventa, così, l'unico mezzo per opporsi a tanta disillusione, ovvero lo strumento per garantirsi il dominio etico e intellettuale insieme con la libertà spirituale.   Nel «Furioso Orlando», al contrario, sul tessuto prezioso dei versi originali Baliani innesta sue digressioni che, mentre vorrebbero avere una funzione straniante, a conti fatti servono solo a strappare risatine facili. Si arriva, su questo terreno, persino alla descrizione esplicita di gesti sessuali. E non più giustificate e determinanti appaiono, al riguardo, la datatissima esibizione a vista delle macchine per imitare il suono del vento e del mare e le scontatissime citazioni dalla «Commedia» di Dante (la «selva oscura»!), da «La tempesta» e dall'«Otello» di Shakespeare e dall'«Odissea» di Omero.   Certo, è molto bravo Stefano Accorsi nell'atteggiarsi a metà fra il cantastorie e l'opera dei pupi. E altrettanto efficace, sempre sul piano puramente spettacolare, risulta la sua «spalla» Nina Savary. Ma, per concludere, mi permetto due sommesse domande. A parte il fatto che a ironizzare sulla tradizione cavalleresca aveva già provveduto da sé l'Ariosto, perché portare in scena il «Furioso» se poi lo si doveva sfottere? E ancora, che c'entra con l'Ariosto e il «Furioso» la «Canzone del Re Salomone» da «L'opera da tre soldi» di Brecht?                                           Enrico Fiore(«Il Mattino», 21 dicembre 2012)