CONTROSCENA

Un '68 sospeso fra slogan e Berlusconi


Cominciano a diventare davvero troppi gli spettacoli che il loro oggetto o lo tradiscono (come nel caso del «Furioso Orlando» di cui ho scritto venerdì) o lo trattano con molta approssimazione (come nel caso del «C'era una volta il '68» che Carlo Cerciello presenta all'Elicantropo).   Nelle sue note, Cerciello prima dichiara che con quell'evento «tutto cambiò, la società intera cambiò» e subito dopo dichiara che «un altro mondo ci apparve possibile e tentammo di realizzarlo». Insomma, il «cambio» ci fu effettivamente o fu soltanto un'ipotesi o addirittura un semplice sogno? «C'era una volta il '68» sconta sino in fondo la contraddizione posta in essere dalle affermazioni citate e l'indecisione «ideologica» che ne deriva, fra la constatazione amara che quarantaquattro anni fa «poteri più grandi di noi schiacciarono ogni anelito di cambiamento futuro» e l'affermazione fideistica che «il '68 non è finito, non finirà mai».   È la stessa indecisione che Cerciello infliggeva all'allestimento de «La madre» di Brecht. La verità è che il Sessantotto fu un'illusione: generosa, certo, ma pur sempre illusione. E bastano a dimostrarlo «Il Manifesto», qui appena citato, e la sua vicenda. Nel '72, illustrando nel centro di via Pessina le liste de «Il Manifesto» (un errore teorico e strategico) per le elezioni politiche, Lucio Magri previde di raccogliere un milione  di voti. Ma se ne raccolsero appena 223.000 o giù di lì. E poiché quanto più grande e rischiosa è l'illusione tanto più grande e dolorosa è la disillusione, ecco le conseguenze del suicidio di Magri e della diaspora recentissima da «Il Manifesto» di Rossana Rossanda e Valentino Parlato.   Voglio dire che, nella circostanza, l'illusione era stata quella di poter trasformare «Il Manifesto» - nato come coscienza critica del Partito Comunista Italiano, con lo scopo di pungolarlo da sinistra sul piano teorico - in un vero e proprio partito, che facesse da contraltare allo stesso Pci ed entrasse in concorrenza con esso sul piano parlamentare. E che i pericoli insiti in un simile progetto fossero evidenti, lo dimostra il fatto che i militanti riuniti nel centro di via Pessina si spaccarono esattamente a metà: quelli che erano favorevoli alla presentazione di liste de «Il Manifesto» vinsero per un solo voto. E io votai, insieme, contro la presentazione di quelle liste e contro la mia candidatura, fortemente voluta da Magri, per l'appunto, e da Massimo Caprara.   L'accettai, poi, solo per disciplina, rispettando la volontà della maggioranza dei compagni. Ma, per coerenza, alle elezioni non mi votai e non mi feci votare. Coloro i quali mi votarono (e furono 158, più di quelli che votarono, poniamo, per alcuni docenti universitari sulla carta favoriti rispetto a me) lo fecero per una loro del tutto autonoma decisione.   Ma, naturalmente, nello spettacolo di Cerciello - il quale, evidentemente, non ha vissuto molto da vicino (e «da dentro») il Sessantotto - le analisi riferite a queste e ad altre analoghe situazioni e vicende sono del tutto assenti. Si comincia e si finisce con lo slogan «Ribellarsi è giusto». E in mezzo non c'è che una rievocazione di maniera - affidata alla buona volontà degli ignari allievi dell'Elicantropo - circa gli episodi più noti (a cominciare dal processo alla «Zanzara») accaduti in merito alle rivendicazioni di libertà culturale, politica e sessuale partorite dal fatidico periodo. Con l'ovvia colonna sonora costituita dagli hits dell'epoca (da «Che colpa abbiamo noi» dei Rokes a «Star spangled banner» di Jimi Hendrix) e la solita battuta su Berlusconi, definito «il presidente operaio» e che, altrettanto ovviamente, col Sessantotto non c'entra nulla.   Stridono fra loro, infine, l'ironia che vorrebbe essere straniante e la paralisi dei vari pistolotti ammanniti. E quindi è sbagliata pure la regia in sé.                                              Enrico Fiore