CONTROSCENA

Con gli occhiali di Anna Maria Ortese


Lo sappiamo, Anna Maria Ortese denunciò e analizzò la miseria spirituale, politica, sociale e culturale dell'Italia di oggi con una chiarezza e una spietatezza sconosciute alla maggior parte dei suoi colleghi. E ricordiamo, in proposito, quanto scrisse in una delle prime pagine di «Corpo celeste», quasi a mo' di epigrafe: «Vedo la vita senza pensiero, privata di critica, correre via come un giorno unico, monotono: come una imbarcazione piegata su un fianco, e non guidata più da nessuno».   Ebbene, è perché non vuole salire su quell'«imbarcazione» che Eugenia - la bambina «cecata» di «Un paio di occhiali», il racconto d'apertura de «Il mare non bagna Napoli» - viene presa da un vomito irrefrenabile quando finalmente inforca, appunto, gli occhiali che aveva tanto desiderato. E infatti, Zia Nunzia non le aveva detto: «Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo»?   M'affretto ad aggiungere, ora, che di tutto questo «Un paio di occhiali» - la messinscena che avvia nel Ridotto del Mercadante il progetto dedicato, giusto, a «Il mare non bagna Napoli» - costituisce un riscontro addirittura esemplare. La regia di Luca De Fusco trasforma quello che alla partenza appariva quale un rischio tremendo in un'eccellente dimostrazione di come si possa far teatro, e ottimo teatro, con un testo non nato per il teatro e, soprattutto, carico di una letterarietà onnivora.   Tanto si verifica a cominciare dall'immagine offerta dall'attrice protagonista: quella di una signora in tailleur seduta in poltrona, le unghie perfettamente laccate di rosso, che parla con i toni lenti del ricordo, come in una classica conversazione borghese in salotto. È, certo, uno straniamento inteso ad evitare le secche della retorica rispetto alla descrizione dello squallido ambiente in cui vive Eugenia; ma è anche, e specialmente, proprio una sottolineatura del distacco dal mondo.   Non a caso, intorno a quella poltrona c'è il vuoto, popolato unicamente, e ancora non a caso, da un'alta specchiera collocata sulla sinistra: colei che racconta, dunque, ci fa sentire, in effetti, un colloquio con se stessa. E un'invenzione non meno acuta e pertinente della regia sta nella reiterata proiezione sul fondale degli occhi, solo degli occhi, della donna seduta in poltrona. È l'ulteriore insistenza sullo sguardo «sterile» di Eugenia, uno sguardo che si determina e si esaurisce in sé.   Splendida e persino commovente risulta, infine, la prova di Gaia Aprea: senz'alcun dubbio - per misura e stile - una delle migliori della sua carriera, e tale da raccomandare vivamente una puntata al Mercadante.                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino», 17 gennaio 2013)