CONTROSCENA

La gelosia di Molière a ritmo di tango


Arnolfo arriva dalla campagna in treno, legge «Le Figaro» e, da ricco proprietario terriero che era nel testo originale, qui diventa un bottegaio che vende orologi e occhiali. E alla fine - mentre poco prima, quand'era ancora speranzoso, aveva cantato «Il tango delle capinere» accompagnandosi con la fisarmonica - tenta, ormai sconfitto, di uccidersi con un colpo alla tempia: ma la rivoltella spara solo un clic.   Insomma, avete capito che cosa combina Marco Sciaccaluga, il regista dell'allestimento de «La scuola delle mogli» che lo Stabile di Genova presenta al Mercadante. Trasporta la trama di Molière (il vecchio Arnolfo, che ha allevato una ragazza povera tenendola chiusa in convento per evitare spiacevoli sorprese una volta che l'avrà sposata, deve accorgersi suo malgrado che proprio il candore di Agnese la dispone al cedimento di fronte all'amore del giovane Orazio) negli anni Venti e, soprattutto in virtù di quel finale, completamente inventato, la cala nella cornice formale e ritmica di una sorta di vaudeville inzuppato nella farsa.   Fatto sta, però, che siamo di fronte a un copione autobiografico su cui si riverbera una luce sinistra. È del 1663, l'anno successivo al debutto de «La scuola delle mogli» al Palais Royal, la lettera spedita da Racine all'abate Le Vasseur per informarlo della denuncia contro l'autore presentata al re dall'attore Montfleury: «Egli l'accusa di aver sposato la figlia e di essere andato a letto con la madre di lei». E a tali tremende imputazioni - si diceva, in breve, che Armande, sposata appena dieci mesi prima dell'andata in scena della commedia in questione, era nata dalla relazione fra Molière e Madeleine Béjart  - si attenne, del resto, anche un altro dei più accaniti persecutori del Nostro, quel Le Boulanger de Chalussay che nel 1670 scrisse, alludendo giusto a «La scuola delle mogli» e alla «querelle» che ne era scaturita, l'acido testo dell'«Élomire hypocondre».   Meno male che, nel ruolo di Arnolfo, c'è il solito, impareggiabile Eros Pagni: riesce, contro le peregrine trovate della regia, a inverare perfettamente la splendida e acutissima definizione che della gelosia in Molière diede Giovanni Macchia: «Il fiore livido di una pianta minata alle radici». Gli altri - i migliori mi paiono Alice Arcuri (Agnese) e Federico Vanni (Crisaldo) - fanno quel che possono.   Infine, due interrogativi: perché, visto che siamo negli anni Venti, invece di parlare di franchi si continua a parlare di «pistole»? e perché, visto che siamo in Francia, sull'insegna del negozio di Arnolfo c'è scritto «Orlogerie et lunette» invece che «Horlogerie et lunettes»?                                             Enrico Fiore(«Il Mattino», 15 febbraio 2013)