CONTROSCENA

Addio a Jérôme Savary


Nel suo «Dizionario amoroso dello spettacolo» la lettera «N» è rappresentata da Napoli e la «T» da Totò. E una volta me lo spiegò, ridendo sincero: «"Nojo vulevòn savuàr"... Ne sono convinto, io ho imparato prima il napoletano e poi l'italiano. E per me, puramente e semplicemente, Napoli è Totò. Sono trent'anni che mi vedo e rivedo i suoi film, ormai li conosco a memoria. Totò è, nello stesso tempo, surreale e concretissimo. Insomma, è come la vita».   Sì, Jérôme Savary - scomparso a settant'anni lunedì sera a Levallois-Perret, ucciso da un cancro - aveva con Napoli un rapporto viscerale. Tanto che compì all'inverso il viaggio di Tiberio Fiorilli. Se il gran comico napoletano dell'Arte divenne famoso a Parigi col nome di Scaramouche e fu il maestro di Molière, lui, Savary, volle farsi produrre, fra il 2000 e il 2005, dal Nuovo Teatro del napoletano Marco Balsamo.   Infatti, la caratteristica fondamentale che distinse lo straordinario regista d'oltralpe fu - insieme con il gusto per la dissacrazione inscritto in una costante e rutilante accensione fantastica - per l'appunto il cosmopolitismo. Nato a Buenos Aires e quindi studente d'arte e di musica a Parigi, a diciannove anni si trasferì a New York (dove frequentò gente come Lenny Bruce, Count Basie, Thelonious Monk e Charles Mingus) per poi tornare a Parigi (dove incontrò, fra gli altri, Lavelli, Copi, Arrabal, Giacometti, Lindsay Kemp e David Bowie).   Strepitosa, perciò, fu la carriera di Savary, di pari passo sul piano istituzionale e su quello artistico. Fondatore della celebre compagnia Grand Magic Circus, diresse il Centre Dramatique du Languedoc-Roussillon, il Carrefour Européen du Théâtre di Lione, il Théâtre National de Chaillot e l'Opéra Comique di Parigi. E fra prosa, lirica, operetta e musical, come regista firmò oltre centocinquanta allestimenti di spicco in tutti i più prestigiosi teatri del mondo, dalla Scala allo Schiller Theater di Berlino.   A proposito della dissacrazione di cui sopra, occorre però precisare che Savary la intendeva come un mezzo per gettare un ponte fra l'epoca degli autori classici e la nostra. E faccio, nel merito, appena due esempi.   Nel suo allestimento del «Sogno di una notte di mezza estate» di Shakespeare, datato 1990, la corte ateniese diventava una tribù di zingari, con Ippolita che faceva la chiromante, i giovani nobili che irrompevano in motorino e il bosco incantato degli elfi e delle fate che si trasformava in un cartone animato alla Disney. E la sua rivisitazione de «L'avaro» molièriano ci mostrava, nel 2000, un Arpagone che faceva i conti con una calcolatrice e, a caccia della propria cassetta, consultava le Pagine Gialle.   Ma penso, per concludere, che pochissime volte come nel caso di Savary il teatro si è così tanto confuso con la vita, e tanto amorosamente, giusto, e allegramente. Lo rivedo mentre stavamo seduti ai tavolini di una brasserie di Place Charles Félix a Nizza, in una dolce mattinata di sole seguita alla neve del giorno prima. Un gigantesco avana in bocca, giacca doppiopetto gessata, pantaloni sformati e ai piedi... un solo calzino, l'altro se l'era scordato o non l'aveva trovato. E mi parlava del suo nuovo spettacolo intitolato, infatti, «La vie d'artiste racontée à ma fille», mentre intorno a noi cinguettavano i vezzi di Beatriz Carmen, quattro anni e mezzo, nata dall'ultima e già lasciata compagna cubana.   Arrivederci, Jérôme. E mi raccomando, continua a tenere sempre a portata di mano un bicchiere di vino. Perché tu l'hai appresa bene, la lezione del divino Khayyâm: «Mentre vivi, bevi».                                             Enrico Fiore(«Il Mattino», 6 marzo 2013)