CONTROSCENA

Viviani, l'altra autobiografia


«Si sape ca tu sì, nun se n'addona; / e si nun sì, t'accide maggiormente. / E, intanto, tutt' 'o juorno, nun fa niente / e si fatiche tu, nun 'a perdona!». Sono i quattro versi inediti - un'evidentissima anticipazione della celebre poesia «Campanilismo» declamata una sera dal palcoscenico del Fiorentini - con cui Viviani bolla «il napoletano che soggiace all'ignavia, al torpore, alla indifferenza, alla supercritica sterile» e che, perciò,«è un essere davvero nefasto».   Compaiono, adesso, in «Raffaele Viviani. Dalla vita alle scene. L'altra autobiografia (1888-1947)», il volume a cura di Maria Emilia Nardo pubblicato da Rogiosi e che sarà presentato oggi alle 18, presso il Caffè Gambrinus, con l'intervento dell'autrice e di Renato Carpentieri, Giuliano Longone e Clara Borrelli. E basterebbero da soli, quei quattro versi, a dire quanto il volume in parola sia interessante e, di più, illuminante.   Giuliano Longone, il nipote di Viviani, ne spiega la genesi così: «Quando lo donai alla Biblioteca Nazionale insieme con i tanti altri documenti che costituiscono il Fondo Viviani della Lucchesi Palli, pensavo che quel dattiloscritto non fosse che l'autobiografia pubblicata da Cappelli nel '28 e ripubblicata da Guida nel '77 e nell'88. E invece le indagini condotte da Maria Emilia Nardo hanno rivelato che si tratta di una nuova stesura di "Dalla vita alle scene". Negli ultimi anni di vita, colpito dalla malattia che l'aveva costretto ad abbandonare il teatro, Viviani - chiuso nello studio col figlio Vittorio - mise mano a una revisione di molti dei suoi scritti. E purtroppo questa seconda stesura della sua autobiografia non vide la luce, per l'aggravarsi della malattia e il sopraggiungere della morte».   Salta subito agli occhi, infatti, la maggiore qualità della prima parte del documento rispetto alla seconda, che sconta, manco a dirlo, il diminuire delle capacità intellettuali di pari passo con l'acuirsi delle sofferenze fisiche. Non a caso, il dattiloscritto reca delle annotazioni a mano fatte prima con la stilografica, quelle di Viviani, e poi, sempre più spesso, con la biro, quelle di Vittorio che diventava a poco a poco l'autentico scriba del padre morente.   Sul piano dei contenuti e della forma, ecco, poi, come la Nardo riassume le differenze d'impostazione e organizzazione riscontrabili fra la prima e la seconda stesura dell'autobiografia vivianea: «Se nell'edizione del 1928 il Viviani aveva raccontato le sue memorie sviluppandole in capitoli organizzati per nuclei tematici a carattere, per così dire, "bozzettistico-impressionistico", nell'autobiografia inedita segue invece un ordine "logico-temporale" più analitico e completo».   Aggiungerei che, in questa seconda  stesura, Viviani adotta - certo anche grazie all'influenza esercitata dalla cultura «laica» del figlio, vastissima e sorvegliatissima - uno stile assai più asciutto e incisivo che nella prima. Valga a dimostrarlo il confronto fra i due incipit. Nella prima si legge: «Nacqui a Castellammare di Stabia, la notte del 10 gennaio 1888, all'una e venti, figlio di un cuor d'oro di donna e di un padre cappellaio, che più tardi divenne vestiarista teatrale»; e nella seconda: «Nacqui in Castellammare di Stabia, la notte del 10 gennaio 1888, all'una e venti di notte. Mio padre, Raffaele anche lui, era cappellaio, con una modesta botteguccia; e faceva da impresario teatrale ad un locale popolare del luogo, l'"Arena Margherita", dove andavano a recitare i "Pulcinella" del tempo, specialmente in estate».   Come si vede, siamo di fronte a una prosa che assume, ora, un taglio decisamente documentaristico, del tutto scevro dalle implicazioni sentimentali. E ancora non a caso, dunque, l'ennesimo dei rilevanti inediti compresi ne «L'altra autobiografia» ci mostra un Viviani che, nelle vesti di vero e proprio cronista, prende appunti in versi circa il processo Cuocolo. Per esempio, dice un tale che ad esso è scampato: «C'era una vecchia ruggine / tra la questura e me; / dicette: "Io mò m' 'a squaglio" / e ghiette a Santa Fè».   Ma, infine, il pregio decisivo del libro di cui parliamo consiste nella riproposta del totale e appassionato identificarsi di Viviani con Napoli. Torna in mente il grido altissimo che, si racconta, lui lanciò un attimo prima di spirare: «Arapite 'a fenesta, faciteme vede' Napule!».                                                        Enrico Fiore(«Il Mattino», 14 marzo 2013)