CONTROSCENA

Le "voci" di Eduardo contro l'indifferenza


Non posso dimenticarla, la sera dell'8 gennaio del '77. Eduardo m'aveva fatto sapere che voleva parlarmi. E adesso (mancavano un paio d'ore alla «prima») sul palcoscenico del San Ferdinando, sotto i grappoli delle sedie «scassate» dei Saporito, mi parlava de «Le voci di dentro» tenendomi un braccio intorno alle spalle. Disse: «Il significato della commedia sta tutto nel sogno della cameriera Maria, che non a caso ho messo proprio all'inizio. E ci stanno pure tutti i personaggi». Tanto che, aggiunse, lui aveva scelto gl'interpreti sulla base dell'aderenza del loro fisico agli elementi metaforici di quel sogno, a partire dal famoso «verme bianco cu 'a capuzzella nera».   Infatti, «Le voci di dentro», amarissima fra le commedie amare di Eduardo, si regge sul continuo scambio fra la quotidianità e l'incubo. Poiché, qui, la vita finisce tra parentesi. Un personaggio, Zi' Nicola, non parla più se non per mezzo dei fuochi d'artificio. E, per un personaggio che non parla, altri ve ne sono che, per l'appunto, sognano.   A parte Maria, che sogna della fuga del cuore da un mondo ormai dimentico della solidarietà fra gli uomini, sogna Rosa Cimmaruta di un capretto al forno che si trasforma in un bambino divorato con feroce avidità. E sogna Alberto Saporito di un delitto compiuto in casa Cimmaruta, ma finendo - di fronte ai Cimmaruta che si accusano l'un l'altro, convinti che il crimine sia stato effettivamente commesso - per non sapere più se ha davvero sognato. E persino chi non sogna, come il portiere Michele, coltiva la nostalgia dei sogni che faceva da ragazzo, quando «la vita era un'altra cosa» e poteva fare sogni che «parevano spettacoli di operetta di teatro».   Insomma, qui il sogno non costituisce, come per Calderón, la cifra di una dimensione metafisica sospesa fra il divino e l'umano, fra l'eterno e il contingente. Qui costituisce, giusto, una fuga dalla vita: o, meglio, è l'esatta proiezione di una vita di cui la guerra e le sue atroci conseguenze (Eduardo scrisse la commedia nel '48) hanno cancellato la connotazione più autentica, quella del fraterno vincolo comunitario. E direi che Toni Servillo - in quanto regista e protagonista dell'allestimento de «Le voci di dentro» presentato al teatro Grassi da Teatri Uniti, dal Piccolo e dal Teatro di Roma - non solo illustra tutto questo con acume straordinario, ma ne spinge l'eco fino alla tragedia dell'oggi.   Galleggiano nel vuoto gli scarni arredi predisposti dallo scenografo Lino Fiorito, compaiono come in una nebbia, dietro un velatino, i grappoli di sedie dei Saporito e il mezzanino di Zi' Nicola. E la recitazione di Servillo diventa un nevrotico e inquietante basso continuo. Mi riporta alla mente, ancora una volta, «I turbamenti del giovane Törless» di quel grande cantore della «finis Austriae» che fu Musil: «[...] tra la vita che si vive e la vita che si sente, che s'intuisce, che si vede di lontano, è una frontiera invisibile; la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell'uomo».   L'Alberto Saporito di Toni Servillo è crocifisso su quella frontiera, il suo sogno è quella porta stretta. E il Carlo Saporito di Peppe Servillo invera perfettamente la visione zoomorfa (è appunto il «verme bianco cu 'a capuzzella nera») che del personaggio ebbe Eduardo, senza contare che la regia lo rende ancora più laido e avido di quanto sia nel testo originale: insiste a strisciare con gli occhi sul petto di Maria e tracanna subito, tutto d'un fiato, il bicchiere di vino che lei gli ha porto, ben prima d'assaggiare i maccheroni bruciacchiati di Rosa.   Degli altri, fra i quali s'avvertono marcati dislivelli, son da citare Betti Pedrazzi (Rosa Cimmaruta) e Marcello Romolo (Michele). E non mi trova d'accordo l'eliminazione del sogno di Rosa. Ma dinanzi alla strepitosa e agghiacciante invenzione finale le perplessità passano in secondo piano.   Dopo la requisitoria del fratello («Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni… il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia!»), Carluccio Saporito si addormenta, fino a russare: perché sono l'indifferenza e l'ebetudine il veleno che ci sta uccidendo. E allora risento, una per una, le ultime parole che Eduardo mi disse l'8 gennaio del '77: «Questa commedia è oggi ancor più attuale di quanto fosse nel '48: viviamo brutti tempi, che rendono inevitabile uno sconvolgimento perché è certo che così non si può andare avanti. E il dovere di un artista degno di questo nome è quello di mostrare alla gente la realtà, per quanto sgradevole essa sia».                                                    Enrico Fiore(«Il Mattino», 29 marzo 2013)