CONTROSCENA

Quando il vaudeville s'arrese al burlesque


La locandina di «Gypsy» - lo spettacolo in scena all'Augusteo nell'adattamento e per la regia di Stefano Genovese - aggiunge al titolo l'ormai immancabile (e spessissimo pretenziosa) qualifica «il musical». Ma, pur non prescindendosi, appunto, dal celebre musical firmato nel '59 da Jule Styne e Stephen Sondheim, nell'allestimento in questione la prosa prevale sulle canzoni e le coreografie. E insomma, siamo di fronte, piuttosto, a una commedia con musiche e, per lunghi tratti, a una commedia «tout court».   La storia (autentica) è quella di Rose Louise Hovick, che, col nome d'arte di Gypsy Rose Lee, negli anni Trenta e Quaranta divenne talmente famosa da essere soprannominata, senza mezzi termini, «la regina dello spogliarello». Tuttavia, la vera protagonista diventa, nella circostanza, sua madre Rose, la classica «stage mother» pronta a tutto pur di vedere le sue due figlie - June e, giusto, Louise - diventare delle star del vaudeville.   Rose, però, non si accorgeva che il vaudeville s'avviava rapidamente a cedere il posto al burlesque. E il fatto che nello spettacolo in scena all'Augusteo la prosa prevalga sulla musica e sulla danza consegue il risultato non trascurabile di portare alla luce il senso metaforico della narrazione: quello relativo alla fine del proverbiale sogno americano determinata dalla guerra e dalle sue conseguenze.   Si capisce, dunque, che a ciò concorre in misura decisiva la prova fornita dagl'interpreti. Si distinguono, fra gli altri, i convincenti Gisella Szaniszlò (Louise), Eleonora Tata (June), Sergio Leone (l'agente teatrale Herbie), Barbara Corradini (Tessie) e Giada Lorusso (Electra e la segretaria). E tutti insieme costruiscono - intorno alla mattatrice Loretta Goggi, che ovviamente ha il ruolo di Madame Rose - una rete di appoggi tanto fitta quanto efficace. Sino al punto che, fra grottesco e amarezza, la complessa (e contorta) personalità di quella donna, persa nel disperato tentativo di realizzarsi per interposta persona, finisce a stagliarsi con un'evidenza assolutamente icastica.   In breve, Loretta Goggi mette in campo (a parte le doti vocali, ancora intatte, e una recitazione di pregio) un impegno e una dedizione al mestiere tanto rari, di questi tempi, da tradursi in un esempio prezioso. E fa bene vedere, al termine dello spettacolo, quelle decine e decine di mani che da sotto il proscenio si tendono verso le sue. Almeno per un momento, il teatro ritrova, così, quell'aura di rito comunitario che purtroppo sta perdendo.                                                Enrico Fiore(«Il Mattino», 10 aprile 2013)