CONTROSCENA

Bernhard, Gould e le variazioni sulla vita


L'austriaco Thomas Bernhard ha edificato una gigantesca cattedrale di parole solo per dire, nell'eco del suo connazionale Hofmannsthal, che «le parole non sono di questo mondo». Ed è un grande scrittore, uno dei più grandi del Novecento, perché quella cattedrale invera ed incarna l'ossimoro decisivo da lui individuato come cardine dell'esistenza e, quindi, della propria opera: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere».   L'affermazione è di Caribaldi, il direttore di circo protagonista de «La forza dell'abitudine». E traduce con esattezza estrema i temi fondamentali del teatro di Bernhard: la circolarità coatta dell'esistenza, che soltanto la morte può spezzare, e la vita sentita unicamente come abitudine. Caribaldi, infatti, impone a se stesso e ai suoi compagni di provare continuamente il «Quintetto della trota» di Schubert. Così come da anni e anni si esercita giorno e notte sulle Variazioni Goldberg il Glenn Gould che compare ne «Il soccombente», il romanzo di Bernhard adesso in scena, al Nuovo, nell'adattamento di Ruggero Cappuccio.   Non a caso, a un certo punto qui si dice: «non abbiamo nessun altro desiderio se non quello di essere morti, eppure seguitiamo a vivere». È un ricalco dell'affermazione di Caribaldi. Ed eccola, la grandezza di Bernhard: le variazioni diventano, da semplice oggetto della narrazione, la narrazione medesima, che non è altro, per l'appunto, che una variazione sul tema. Non si potrebbe immaginare una più onnivora coincidenza della scrittura con la vita sentita come circolarità e abitudine. E al riguardo mette in campo un'idea decisiva, Cappuccio, quando affianca all'io narrante un'attrice (la brava Marina Sorrenti) che ne pronuncia con diverse intonazioni l'ossessivo intercalare «pensai»: siamo alle variazioni fatte persona.   Non meno significante appare, quindi, l'invenzione della regista Nadia Baldi di estendere sul piano visivo quelle variazioni, mediante i segni che i due interpreti tracciano di continuo sulle pareti. E infine, l'io narrante di Roberto Herlitzka è semplicemente monumentale. Trascina giù i massimi sistemi del testo, al livello di una parlata quotidiana che s'innerva di un'ironia tranquilla e, perciò, tanto più gelida e destabilizzante; ma, poi, fa ancora di più, innesca un'autentica vertigine.   Herlitzka apparenta le variazioni del Gould di Bernhard alle sempre più strette volute da uccello con cui, avvicinandosi la morte, il Casanova di Schnitzler (l'ennesimo grande austriaco) cominciò a calare «da libere altezze» sulla natìa Venezia.                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino», 19 aprile 2013)