CONTROSCENA

Il varietà di Viviani formato Ranieri


«E io lasso 'a casa mia, lasso 'o paese, / e me ne vaco 'America a zappare»… Queste le parole che nel 1918, in «Scalo marittimo», Raffaele Viviani metteva in bocca all'emigrante Colantonio in procinto di partire col transatlantico «Washington» alla volta dell'Argentina. E undici anni dopo toccò allo stesso Viviani compiere quel viaggio, sul piroscafo «Duilio» diretto a Buenos Aires.   Certo, Don Raffaele non andava nelle Americhe a zappare, ma solo a recitare. Ed eccola, l'idea eccellente da cui muove «Viviani Varietà», lo spettacolo di Maurizio Scaparro approdato all'Argentina di Roma e in programma al Diana dal 18 dicembre al 6 gennaio prossimi: s'immaginano le prove che Viviani e la sua compagnia fanno, per l'appunto, a bordo del «Duilio»; e dunque, vengono messi a contatto il mondo di chi effettivamente partiva in cerca di pane e lo sguardo dall'esterno di chi quella partenza, e il dolore e la speranza che la intridevano, li aveva soltanto immaginati, sia pure attraverso la lente della poesia e di un'impegnata partecipazione umana e civile.   In breve, qui si poteva mettere in scena - più che una semplice rappresentazione - lo scontro (e l'interscambio) fra il teatro e la vita. Ma, fatti debitamente i conti, arriviamo alla constatazione che «Viviani Varietà» s'accontenta della superficie, ossia dell'antologia di «numeri», quasi tutti notissimi, che ripropone sul piano spettacolare in sé: da «So' Bammenella 'e copp' 'e Quartiere» a «'O 'nnammurato mio», da «Tarantella segreta» a «'Sta festa 'o ssa'», da «Fore 'o vascio» a «'O sapunariello».   L'antologia si avvale delle elaborazioni musicali di Pasquale Scialò e di testi di raccordo ricavati da scritti vari di Don Raffaele e assemblati a cura di Giuliano Longone. E Massimo Ranieri, ovviamente nei panni di Viviani, si colloca, giusto, sul confine tra le due opzioni di cui sopra, ma pendendo - com'era facile prevedere - dalla parte della seconda.   Tanto per fare un esempio, dà voce allo spaesamento di Viviani («Guarde 'a dint' 'o binocolo, / e 'a terra manco appare. / Na stesa immensa 'e nuvole, / e mare mare mare»), ma ne mette fra parentesi - proprio in omaggio alla spettacolarità - il profondo e amarissimo senso metaforico; e per contro, si dà con tutte le risorse del suo sperimentato mestiere a spremere ogni possibile divertimento dalla lezione che impartisce a una giovane attrice circa il modo esatto d'interpretare «Son la Zucconas». Ciò che vale anche a proposito della versione che Ranieri offre di un altro brano celebre come «'O guappo 'nnammurato», giocata sull'esasperazione del «buffo» a partire da un panciotto istoriato che desterebbe l'invidia persino nel più fantasioso e folle artista del tatuaggio.   Per il resto, si possono citare l'«Avvertimento» di Angela De Matteo e «'O malamente» di Ernesto Lama, il quale ultimo, non a caso, fu tra i migliori comprimari di Ranieri nell'ambito del suo percorso televisivo fra i classici di Eduardo.   Comunque, sarà opportuno, in sede di aggiustamenti, allargare lo spazio destinato nello spettacolo al Viviani «politico». Sappiamo, grazie all'autobiografia «Dalla vita alle scene», l'importanza che Don Raffaele attribuiva all'«arte specialissima» del varietà. Scrisse, fra l'altro: «Furono e saranno ben pochi gli artisti che nel "varieté" poterono far pensare». E lui certamente rientrò fra quei pochi. Basterebbe riflettere, nel merito, sulla violenza con cui si scagliò contro i cerimoniali della borghesia in «Fifi Rino» e contro il servilismo verso i deputati da strapazzo ne «Il pezzente sagliuto». Macchiette da varietà, per l'appunto: ma affilate come la spada di un samurai.                                               Enrico Fiore(«Il Mattino», 27 aprile 2013)