CONTROSCENA

Se Brook riduce Beckett a prova di lettura


In un cilindro di cinquanta metri di circonferenza e sedici di altezza errano senza posa duecento «corpi» dei due sessi e di ogni età (raramente Beckett li definisce come esseri umani) che, mediante delle vecchie scale a pioli, cercano di raggiungere le nicchie aperte nella metà superiore della parete circolare. Ma, spesso, quelle scale non servono, perché i «corpi» in questione ne staccano i pioli e li usano per colpirsi fra loro.   Questa, in breve, la situazione che si dispiega ne «Lo spopolatore», il «racconto» - in effetti si tratta di un gelido saggio filosofico sulla nostra condizione esistenziale - che Peter Brook mette in scena al Sannazaro, in «prima» mondiale, nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia. E di quel testo, scritto fra il 1965 e il 1970, sono possibili due letture, riferite l'una alla superficie narrativa e l'altra alla profondità concettuale.   La prima prende in considerazione l'evidente rimando al Purgatorio dantesco o assume il cilindro come una metafora del ventre materno, la seconda chiama in causa la frattura cartesiana tra il corpo e la coscienza di sé oltre che quella cervantina tra le cose e le parole. E s'intende, è questa seconda lettura che rivela la straordinaria modernità del testo di Beckett.   Infatti, l'interpretazione più vicina alla nostra attuale condizione psicologica, sociale e culturale mi sembra quella che s'incarna nel seguente passo relativo ai «corpi» qui in campo: «Non conoscono la fraternità più di quanto la conoscano le farfalle. E ciò non tanto perché difettino di cuore o di intelligenza quanto perché sono tutti prigionieri del loro ideale».   Eccolo - trasmesso con la precisione e l'impassibilità di un chirurgo - il messaggio di Beckett: è l'ideologia totalizzante la vera prigione che ci separa dal mondo e dalla vita. Non a caso, nel 1976, e con l'approvazione dell'autore, il gruppo d'avanguardia newyorkese Mabou Mines realizzò un adattamento teatrale de «Lo spopolatore» in cui il pubblico sedeva in uno spazio cilindrico dal quale poteva osservare un cilindro in miniatura perfettamente uguale a quello descritto da Beckett. Si sottolineava, così, la tautologia autoreferenziale che informa il testo, quella mutuata dalla «deiezione nell'esserci» di Heidegger.   Dal canto suo, Brook riduce tutto all'osso: in scena ci sono solo tre scale, due pioli e lo sgabello destinato alle soste di un'attrice, Miriam Goldschmidt, che legge alla men peggio il copione e condisce quell'incolore lettura con brevi camminate barcollanti e scarni gesti mimetici. E forse la consistenza minima dell'allestimento traduce un'epifania del pessimismo, dichiarato dal regista inglese in contrasto con la propria, e fondatissima, opinione che «non c'è niente di più positivo delle opere di Beckett». Ancora non a caso, del resto, Brook preferisce, riguardo a Dante, scorgere nel cilindro di Beckett un'immagine dell'Inferno.   Ma la tensione verso l'ascesa è, per l'appunto, delle anime purganti, non può essere di quelle dannate in eterno. E insomma, dopo un mese della cosiddetta «residenza artistica» spesa da Brook a Napoli, avevamo ogni diritto di vedere non una prova di lettura, ma uno spettacolo vero, e degno sia della statura di Beckett, sia della complessità del suo testo, sia della storia prestigiosa del regista.                                                Enrico Fiore(«Il Mattino», 8 giugno 2013)