CONTROSCENA

Antonio e Cleopatra come statue


Senz'alcun dubbio, «Antonio e Cleopatra» - la tragedia di Shakespeare che il Napoli Teatro Festival Italia ha presentato al Mercadante per la regia del suo direttore Luca De Fusco - è un testo straordinariamente complesso. E provo, in breve, a dire perché.   Da un lato abbiamo uno stile e una scrittura preziosi come forse in nessun'altra opera del Bardo e un ordito che in sostanza assume come ambito «ideologico» la storia e la politica, nelle loro accezioni più alte, e come spazio dell'azione addirittura il mondo intero (quello, s'intende, conosciuto all'epoca dell'Impero romano); mentre, dall'altro, riscontriamo che nella circostanza Shakespeare spinge la passione d'amore sul versante di una psicologia piuttosto comune e, persino, condizionata dal cedimento al pettegolezzo e ad assurde pretese di «eroismo».   Di conseguenza, risulta ancora valida l'opinione di Gabriele Baldini, che paragonò questa Cleopatra alle «stelle del music-hall». E aggiungerei, per mio conto, che la Cleopatra di Shakespeare si atteggia pure a regista, se dobbiamo badare all'invito che rivolge ad Antonio nella terza scena del primo atto: «Da bravo, recita una scena di stupenda ipocrisia e falla passare per perfetto onore».   Direi, insomma, che qui il Bardo si diverte a costruire un vertiginoso castello di carte per buttarlo giù, subito dopo, con l'indifferenza di un bambino capriccioso. Ma De Fusco prende tutto molto (troppo) sul serio, a cominciare dall'immagine e dal sonoro che aprono e chiudono lo spettacolo: una parete di teschi con il sottofondo di una musica raggelante.   Peraltro, ci vengono riproposti gli espedienti già sperimentati con successo nei due ultimi (e intelligenti e belli) spettacoli di De Fusco, «Antigone» e «Un paio di occhiali»: principalmente quello che consiste nella proiezione sul velatino che chiude il boccascena del primissimo piano del volto (o di particolari del volto, soprattutto gli occhi) dei personaggi, per loro conto sospesi nel vuoto e nel buio circostanti. Ma simili espedienti restano confinati su un piano formale, sia pure connotato da un'elegante calligrafia. Ed è la differenza che passa fra il linguaggio e la maniera.   Allo stesso modo, non riesce a tradursi in un'adeguata applicazione drammaturgica l'intrigante idea di apparentare l'aspetto figurativo dei personaggi alla statuaria romana da museo. Forse, data la presenza al Festival di un regista russo come Konchalovskij, Luca De Fusco avrebbe potuto ricordarsi de «Le notti egiziane» di Puskin e di come Piotr Fomenko - il maestro del Gitis, la leggendaria Accademia d'Arte Drammatica di Mosca - mise in scena la festa nel salone di una principessa sul tema «Cleopatra e i suoi amanti».   Resta da accennare alla prova impegnata che nel contesto descritto forniscono i due protagonisti Luca Lazzareschi e Gaia Aprea, il primo orientato, talvolta, verso un espressionismo facciale alla Carmelo Bene e la seconda distinta, come sul tempo di un basso continuo, da una prevalente espressività dolorosa. Da citare, fra gli altri, Giacinto Palmarini (Cesare Ottaviano), Paolo Serra (Enobarbo e Mardiano) e Gabriele Saurio (Mecenate).                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino, 12 giugno 2013)»