CONTROSCENA

Viaggiando bendati sul treno del sogno


C'era un nume tutelare che presiedeva a «Centoporte», lo spettacolo del Teatro dei Sensi Rosa Pristina presentato dal Napoli Teatro Festival Italia nel museo nazionale di Pietrarsa. E quel nume tutelare si chiama Giorgio Caproni.   Come per lui, il treno, qui, era metafora della vita; e ciascuno degli spettatori che nella sala delle carrozze salivano sulla vettura modello 1928 RT, denominata per l'appunto «Centoporte», somigliava molto al suo «viaggiatore cerimonioso»: che non sa bene l'ora d'arrivo, non conosce quali stazioni precedano quella in cui dovrà scendere e, però, è certo ch'era bello «confondere i volti» coi compagni di viaggio e fumare scambiandosi le sigarette.   Per quanto, poi, riguarda lo scopo, l'atmosfera e la destinazione del viaggio proposto da Rosa Pristina per la regia di Susanna Poole, giovano, ad inquadrarli, i versi di Heine tradotti da Carducci: «Lungi, lungi, su l'ali del canto / di qui lungi recare io ti vo': / là, nei campi fioriti del santo / Gange, un luogo bellissimo io so».   Il sogno, infatti, era quello che ci regalavano la sospensione della vista (gli spettatori-viaggiatori si ritrovavano a lungo bendati), il silenzio e le fugaci sensazioni tattili che costituivano la drammaturgia dell'evento a partire dalla destinazione scelta da ognuno fra «Vicino», «Lontano» o «Altrove»: non a caso, uno degli altri fantasmatici viaggiatori che di tanto in tanto salivano su quella vettura, stavolta una ragazza, disponeva intorno a una fiammella, come in un Eden dell'innocenza infantile, una folla d'animali in miniatura e sussurrava, appunto, di un luogo bellissimo, che non conosceva ma sapeva che c'era.   Un ricordo o, giusto, un sogno era l'unica cosa che all'inizio una voce nel buio ipotizzava che si potesse mettere nella valigia in occasione delle partenze improvvise di notte o all'alba. E infine, novello Teseo, viaggiavi verso l'uscita seguendo la corda a cui ti aveva guidato la mano una tua ignota Arianna: saliva in alto, la corda, o precipitava in basso, e mille deviazioni generavano i suoi nodi.   La luce dell'esterno, in ultimo, era quella della sera, fatta delle mille luci di un golfo di Napoli visto al contrario, mentre - ancora nelle narici l'odore del ferro che avevi avvertito nella sala delle carrozze - ti trovavi di fronte la ghisa della statua gigantesca di Ferdinando II di Borbone, lui a non vedere il mare e tu a non vedere il Vesuvio. Il mare e il Vesuvio ce li avevate alle spalle, il Borbone e tu. E questo era il miracolo compiuto da Rosa Pristina e dal Festival: la cancellazione della cartolina.                                                Enrico Fiore(«Il Mattino», 14 giugno 2013)