CONTROSCENA

Il valzer della vita nel ricordo di Kantor


Credo, davvero, che nessuno meglio dei pazienti psichiatrici avrebbe potuto riproporre «La classe morta» al di là di Kantor. Sicché «La classe» - lo spettacolo presentato dall'Arena del Sole di Bologna nel Ridotto del Mercadante e che impiega, per la regia di Nanni Garella, giusto gli attori-pazienti psichiatrici dell'Associazione Arte e Salute - costituisce senz'alcun dubbio l'autentico evento del Napoli Teatro Festival Italia. E il miracolo è che, rispetto al modello, questa messinscena è nello stesso tempo fedele e diversissima.   Sappiamo qual è il contenuto dell'allestimento. Qualche fila di banchi consunti ospita un popolo di vecchi decrepiti, le facce ingrigite dalla morte già sopravvenuta o, comunque, già annunciata: aggrappati ai manichini che rappresentano loro stessi da bambini, le «escrescenze della loro infanzia», s'estenuano ulteriormente nella meccanica ripetizione delle minime e banali pratiche quotidiane che, appunto da bambini, compirono un tempo lontanissimo in quella scuola: litigano, si chiudono nel gabinetto, talvolta studiano, spesso si giocano scherzi cretini. E tanto accade sul ritmo di un valzer che torna, ad intervalli più o meno regolari, con il segno dell'ossessione, dell'implacabilità e, insieme, di una solenne dolcezza.   Ogni volta che sale il livello sonoro del valzer (e ogni volta ti vengono le lacrime agli occhi) quei vecchi decrepiti son presi da un frenetico conato d'energia, e si levano in piedi nei banchi in una sorta di lacero trionfo: giacché quella musica rappresenta la «forma» in cui essi chiedono d'essere «imprigionati», appunto per sfuggire all'estrema degradazione della morte.   Che dire, adesso, dell'intensità particolarissima con cui questi particolarissimi attori rendono un simile quadro? Sono loro i manichini, poiché la loro vita s'è arrestata all'infanzia. E - straordinariamente vivi appunto perché considerati «morti» dalle persone cosiddette normali - esaltano al più alto grado l'«emballage» praticato da Kantor: il mezzo inteso a nascondere, per illuminarli, lo splendore della realtà e l'inimitabile essenza dell'uomo.   Cantano, quelle marionette di carne, l'inesausta espressività dei giorni. E tra i loro, sì, ho rivisto a tratti proprio il volto, scarno e allucinato, del poeta tenero ed errabondo che si chiamò Tadeusz.                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino», 17 giugno 2013)