CONTROSCENA

Una Desdemona femminista


«Mio marito sapeva che Jago mentiva, manipolava, sabotava. Allora perché agì, se tutto era così ovvio? Fratellanza. L'approvazione tacita da un occhio di maschio ad un altro».   È questo, senz'alcun dubbio, il passo-chiave di «Desdemona», il testo dell'ottantaduenne scrittrice afroamericana Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura nel '93, che il regista Peter Sellars ha presentato al Mercadante nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia. E si capisce benissimo, dunque, l'ottica in cui viene qui rivisitato l'«Otello» shakespeariano: è un'ottica decisamente e dichiaratamente femminista.   Infatti, respinti sullo sfondo gli uomini (e con loro tutti i problemi agitati nella tragedia del Bardo, quelli relativi alla razza, alla classe, al sesso e al danaro), nella circostanza assistiamo fondamentalmente a dialoghi fra donne: di Desdemona con la balia Barbary, della madre di Desdemona con la madre di Otello e ancora di Desdemona con Emilia. E davvero non a caso, l'ultima delle storie raccontate da Otello è quella dello stupro perpetrato da lui e da Jago su due vecchie indifese.   D'altronde, il fatto che nell'inglese elisabettiano il nome Barbary indicasse l'Africa spiega perfettamente perché sia stata scelta come coprotagonista dello spettacolo e autrice delle sue musiche la grande cantante maliana Rokia Traoré. E rispetto a tutto questo, la regia di Sellars punta su un insieme costituito dalla rarefazione simbolica, dall'accensione ideologica, dalla testimonianza documentaria e dall'afflato sentimentale.   Vedi, tanto per cominciare, quell'autentico tappeto di bottiglie e barattoli di vetro, di varie fogge e dimensioni ma tutti vuoti. Siamo, evidentemente, di fronte a una metafora dell'attesa che si riempia di concretezza la spinta verso la liberazione, e della donna e dell'Africa. E vedi, d'altronde, la scelta di far recitare il testo dietro una selva di microfoni disposti ad altezze varie: più o meno la stessa scelta che, nel 2000, adottò Thomas Ostermeier nel mettere in scena «Crave» di Sarah Kane, appunto un testo-documento.   Improvvisamente, poi, la Traoré, i due musicisti e le due coriste portano via dal palcoscenico gli altoparlanti e gli sgabelli: a significare, giusto, che non si tratta di puro intrattenimento, di uno spettacolo che si esaurisce in sé. E infine, l'insieme di cui sopra si esalta, sotto il profilo espressivo, nella perfetta complementarietà stabilita fra il canto di Rokia, che (ovviamente nel ruolo di Barbary) mescola la tradizione griot con il blues e il jazz, e la recitazione formalizzata che, in quanto Desdemona, mette in campo l'attrice americana Tina Benko.   In linea l'apporto dei musicisti Mamah Diabaté e Mamadyba Camara (rispettivamente allo «ngoni» e alla «kora», il liuto e l'arpa africani) e delle coriste Fatim Kouyaté e Bintou Soumbounou, le quali ultime, anzi, danno vita a uno dei più teneri momenti di questo «concerto teatrale»: quando, loro nere, toccano le mani della bianca Desdemona in un piccolo ma intenso rito fra sorelle.   Insomma, uno spettacolo molto colto e raffinato. Che, semmai, mostra il limite di qualche lungaggine e, in certi punti, della tentazione di tramutare la denuncia in manifesto.                                                  Enrico Fiore(«Il Mattino», 20 giugno 2013)