CONTROSCENA

Il "Circo" di Viviani ridotto a varietà


Quel che Viviani esaltò Alfredo Arias ha cancellato, quel che Viviani tolse Alfredo Arias ha aggiunto. Potremmo riassumere così l'analisi dell'allestimento di «Circo equestre Sgueglia» che il regista franco-argentino presenta ancora oggi al San Ferdinando nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia. Ma, preliminarmente, sarà bene accennare alla trama, che libera tutti i suoi significati decisivi nel finale.   Ormai lontane le loro disavventure coniugali parallele e al limite del «feuilleton» (lui piantato dalla moglie Giannina, che scappò con un «tony» toscano, e lei vedova, essendole stato ucciso il marito che la lasciò per Nicolina, la figlia del proprietario del circo), il clown Samuele e Zenobia si ritrovano in piazza del Carmine e scoprono di poter continuare il cammino insieme. E mentre Zenobia batte sulla grancassa, per richiamare il pubblico, Samuele si lancia nel cerchio della morte alla sbarra: perché, dice, solo così, lavorando, si distrae, «piglia aria», l'anima dolorante che tiene chiusa nel petto.   In breve, attraverso l'affermazione della dignità del lavoro Viviani intese dar conto (non dimentichiamo che «Circo equestre Sgueglia» fu scritto nel '22) dell'affacciarsi delle classi subalterne alla coscienza del proprio ruolo. E da questo discende la modernità lancinante della scrittura scenica aperta di Don Raffaele, giocata sull'angusta terra di nessuno che si stende tra la finzione e la realtà, dove la pista del circo (il teatro), che di tanto in tanto s'intravvede, viene continuamente «aggredita» dalla vita (i luoghi scelti per ciascuno dei tre atti: lo spazio davanti al circo in piazza Mercato, l'interno posteriore del tendone e, appunto, la piazza del Carmine).   Ebbene, Arias annulla completamente e gli esterni e il coro dei personaggi di strada che li popolano (leggi il rapporto speculare con la storia e la società), riducendo il tutto al piccolo mondo chiuso del circo. E sulla pista di quest'ultimo, al posto dei «numeri» canonici che ovviamente Viviani non ci aveva mostrato, installa - sul filo della deformazione grottesca a oltranza - un vero e proprio spettacolo di varietà, condito, per giunta, di tammorre, di una Bettina «en travesti», di una Zenobia a un certo punto presentata come una Madonna che monta la sua corona di stelle su uno scolapasta, di reiterati accenni alla «fellatio» e di un happening in platea di Samuele.   Non a caso, alle sole tre canzoni comprese in «Circo equestre Sgueglia» ne vengono aggiunte la bellezza di altre otto, tratte un po' da tutta l'opera di Viviani: fino alla sorta di minifestival che, dietro un microfono da Eiar, fa da contraltare al finale di cui sopra sciorinando nell'ordine «Attilio Grillo», «Comme 'a fronna», «E aspettammo, aspettammo ca vene» e «Avvertimento». E che significa, poi, quella «Canzone 'e sott' 'o carcere» (uno dei più alti esempi di «canto di non comunicazione verbale», non a caso, in Viviani, eseguito Nannina per conto della puttana Graziella) che qui tocca a un fine dicitore in frac e cilindro?   Non resta che citare i migliori fra gl'interpreti: Massimiliano Gallo (Samuele), Monica Nappo (Zenobia) e Mauro Gioia (il fine dicitore).                                                      Enrico Fiore(«Il Mattino», 23 giugno 2013)