CONTROSCENA

Le Quattro Giornate di Enzo Moscato


Il cuore ideologico di «Napoli '43», il testo di Enzo Moscato presentato al Nuovo nel settantesimo anniversario delle Quattro Giornate, risiede nel corto circuito stabilito fra lo slancio (vitale e passionale) di quell'evento e l'astenia (morale e culturale) della Napoli di oggi. Mentre la potenza espressiva rimane affidata all'espediente di conferire al testo medesimo - per mezzo di una fitta serie di rime interne o baciate - l'andamento di una ballata popolare, «comme fosse no 'na guerra, ma 'na festa 'e Piedigrotta, cu tammorre e tammurrelle, banderelle e lampiuncielle!».   Si tratta, con ogni evidenza, di un espediente adottato per battere in breccia la retorica che sempre s'annida fra le pieghe del ricordo. E a questo scopo obbedisce anche la frequenza con cui Moscato semina nel testo noti proverbi napoletani. Fino («et pour cause», visto che si parla di tedeschi) all'ironica citazione straniante di Nietzsche nel punto in cui il racconto dello stagnaro partigiano Totore viene intitolato «Also sprach Zezzeniello». Senza contare il Don Abbondio manzoniano che qui diventa «'o curato d' 'a parrocchia d' 'Ascensione».   Rifulge poi ancora una volta, e spinto addirittura al parossismo scatologico (per scaricarli sui crucchi dalle finestre, «a manèse tenite viecchie ciesse, nonché càntari scardàti de rinàli!»), il barocco degradato che sempre m'è parso di poter individuare come il tratto decisivo della scrittura di Moscato; e, per esempio, prende corpo nel ricalco del rutilante espressionismo di Majakovskij mescolato con la carnale protervia della «parlesia».   Infine, il testo si coagula e si esalta nella mischia, fuoco vivo, fra la dolente rievocazione dei napoletani che morirono nei lager e l'invettiva risentita contro i tanti napoletani di oggi che hanno dimenticato. Giacché questo, insomma, è l'alto merito di «Napoli '43»: il suo porsi come una testimonianza civile. Ulteriormente potenziata dal terribile paradosso conclusivo secondo cui soltanto un ritorno dei tedeschi potrebbe ridestare nei napoletani l'orgoglio e la capacità di reagire.   Non a caso, poi, la regia, dello stesso Moscato, utilizza l'insieme dei personaggi come un vero e proprio coro greco, ma composto da tanti corifei: sono le «escrescenze» vittoriose e anarchiche di un «corpo» minacciato dalla sconfitta e dal conformismo. E in tal senso vanno lette anche le immagini sceniche di Mimmo Paladino, segni filiformi e slabbrati che suggeriscono l'idea di cicatrici: così richiamando da un lato il «lungo grafismo magro come una lettera» al quale Foucault assimilò Don Chisciotte, simbolo della frattura tra le parole e le cose; e, dall'altro, «Co'Stell'Azioni», il precedente testo di Moscato - autentica profezia di questo «Napoli '43» - in cui, per l'appunto, i Morti vengono tra i Vivi «per farvi sapitori 'e sta ferita».   Pure sotto il profilo della forma (ciò che parla di una significante coerenza strutturale) siamo, dunque, di fronte alla separazione fra un passato luminoso e un presente buio che costituisce il cardine dello spettacolo. E sempre in tema di coerenza, s'adegua perfettamente, a un simile contesto, la prova non meno risentita degl'interpreti: primi fra i quali, accanto all'autore e regista, Antonio Casagrande, Benedetto Casillo, Cristina Donadio, Gino Curcione e Salvatore Cantalupo.   Ma resta negli occhi, come toccante sigla poetica della rappresentazione, soprattutto la scena dei bambini che dal fondo arrivano al proscenio per deporre al fianco dei giovani delle Quattro Giornate uccisi dai tedeschi i loro animaletti di peluche: è il monito a ritrovare l'innocenza, nel senso dello sguardo franco che solo può consentire di cambiare la realtà, riconoscendola nella sua effettiva consistenza oltre ogni preconcetto ed ogni illusione.                                             Enrico Fiore(«Il Mattino», 1 ottobre 2013)