Ecco il racconto di una piccola vittoria conseguita dalla Napoli nobilissima (quella della cultura) che ancora esiste e resiste, nonostante tutta l'indifferenza dei politici e tutte le inadempienze degli amministratori locali. Giulia Cogoli è una donna che conta nella Milano che conta. Fra l'altro dirige il Festival della Mente di Sarzana. E lì, nel settembre dell'anno scorso, approdò Enzo Moscato con il suo «Toledo suite». Giulia Cogoli, che s'era letteralmente innamorata di quel recital, si diede subito da fare perché Ronconi ed Escobar - anche loro fra gli spettatori di «Toledo suite» e, del resto, non meno entusiasti di lei - lo portassero al Piccolo. E così, Moscato è tornato al Piccolo a vent'anni di distanza da quando Strehler lo invitò a rappresentarci «Embargos». Ma Giulia Cogoli ha fatto qualcosa di più. Dal momento ch'era il suo compleanno, il giorno prima del debutto ufficiale s'è comprata, a titolo di regalo, una replica straordinaria dello spettacolo, pagando di tasca propria il Teatro Studio e la compagnia. E come se non bastasse, al termine ha offerto, nel foyer dello Strehler, una cena di gala all'intera Milano di rango che aveva invitato a vedere «Toledo suite». Sembra una favola, soprattutto se consideriamo il fatto che, per «Napoli '43», qui da noi Moscato non ha avuto nemmeno una lira. Ed è inutile sottolineare il contrasto eclatante che si stabilisce fra la disattenzione subìta da «Napoli '43» e l'autentico trionfo che nel Teatro Studio del Piccolo ha ottenuto «Toledo suite»: inutile anche perché proprio sull'ossimoro - insieme spiazzante e stimolante - si fonda e si regge «Toledo suite», con una coerenza tanto ferrea quanto appassionata. Qui, infatti, la musica va intesa come la soglia fra il tormento di una condizione asfittica e il conforto di un'evasione sognata. E non a caso, allora, tra una canzone e l'altra vengono chiamate a parlare della musica le puttane, appunto, di «Toledo suite», il testo che faceva parte, nell'88, di «Tiempe sciupate»: le puttane chiuse «rint'a cchelli celle 'e monache in peccato». La soglia in questione si manifesta, peraltro, già nel velatino che chiude il boccascena, e soprattutto nei lineari, e pure raffinatissimi, disegni-segni di Mimmo Paladino che su quel velatino vengono proiettati. E non mette conto, al riguardo, d'insistere né sull'interscambio continuo fra canzoni leggere come «Cerasella» o «Anema e core» e brani risentiti come «Youkali» e «To my little radio» di Brecht, né sulle spezzature e le dissonanze che tramano gli arrangiamenti di Pasquale Scialò. Appartengono alla Napoli nobilissima che ha trionfato a Milano anche i tre giovani ma già sapienti musicisti che accompagnavano Enzo Moscato: Claudio Romano alla chitarra, Paolo Sasso al violino e Paolo Cimmino alle percussioni. Ma uscendo, infine, dal territorio della cronaca, è opportuno annotare che il cerchio si chiude perfettamente. Se Moscato, con il suo spettacolo, può invitare gli spettatori a mobilitarsi contro il sonno della ragione e la miopia dei potenti prendendo in prestito un verso soprattutto della canzone di Brecht: «Fa' che non cada improvviso il silenzio», d'altronde il Teatro Studio del Piccolo è stato intitolato a Mariangela Melato, che dedicò l'ultima sua fatica a «Il dolore» di Marguerite Duras. E della Duras compare nel recital di Moscato quell'«India song» che - l'ennesimo ossimoro - è percorsa dall'inizio alla fine da una straziata e tuttavia dolcissima contraddizione: «Canzone, tu che non vuoi dir niente e tu che mi dici tutto». Non è lo scarto medesimo fra la Napoli dell'ignavia, che tace, e la Napoli della poesia, che grida giorno dopo giorno la propria sia pur lacera dignità? Enrico Fiore(«Il Mattino», 20 ottobre 2013)
Il ritorno di Moscato al Piccolo
Ecco il racconto di una piccola vittoria conseguita dalla Napoli nobilissima (quella della cultura) che ancora esiste e resiste, nonostante tutta l'indifferenza dei politici e tutte le inadempienze degli amministratori locali. Giulia Cogoli è una donna che conta nella Milano che conta. Fra l'altro dirige il Festival della Mente di Sarzana. E lì, nel settembre dell'anno scorso, approdò Enzo Moscato con il suo «Toledo suite». Giulia Cogoli, che s'era letteralmente innamorata di quel recital, si diede subito da fare perché Ronconi ed Escobar - anche loro fra gli spettatori di «Toledo suite» e, del resto, non meno entusiasti di lei - lo portassero al Piccolo. E così, Moscato è tornato al Piccolo a vent'anni di distanza da quando Strehler lo invitò a rappresentarci «Embargos». Ma Giulia Cogoli ha fatto qualcosa di più. Dal momento ch'era il suo compleanno, il giorno prima del debutto ufficiale s'è comprata, a titolo di regalo, una replica straordinaria dello spettacolo, pagando di tasca propria il Teatro Studio e la compagnia. E come se non bastasse, al termine ha offerto, nel foyer dello Strehler, una cena di gala all'intera Milano di rango che aveva invitato a vedere «Toledo suite». Sembra una favola, soprattutto se consideriamo il fatto che, per «Napoli '43», qui da noi Moscato non ha avuto nemmeno una lira. Ed è inutile sottolineare il contrasto eclatante che si stabilisce fra la disattenzione subìta da «Napoli '43» e l'autentico trionfo che nel Teatro Studio del Piccolo ha ottenuto «Toledo suite»: inutile anche perché proprio sull'ossimoro - insieme spiazzante e stimolante - si fonda e si regge «Toledo suite», con una coerenza tanto ferrea quanto appassionata. Qui, infatti, la musica va intesa come la soglia fra il tormento di una condizione asfittica e il conforto di un'evasione sognata. E non a caso, allora, tra una canzone e l'altra vengono chiamate a parlare della musica le puttane, appunto, di «Toledo suite», il testo che faceva parte, nell'88, di «Tiempe sciupate»: le puttane chiuse «rint'a cchelli celle 'e monache in peccato». La soglia in questione si manifesta, peraltro, già nel velatino che chiude il boccascena, e soprattutto nei lineari, e pure raffinatissimi, disegni-segni di Mimmo Paladino che su quel velatino vengono proiettati. E non mette conto, al riguardo, d'insistere né sull'interscambio continuo fra canzoni leggere come «Cerasella» o «Anema e core» e brani risentiti come «Youkali» e «To my little radio» di Brecht, né sulle spezzature e le dissonanze che tramano gli arrangiamenti di Pasquale Scialò. Appartengono alla Napoli nobilissima che ha trionfato a Milano anche i tre giovani ma già sapienti musicisti che accompagnavano Enzo Moscato: Claudio Romano alla chitarra, Paolo Sasso al violino e Paolo Cimmino alle percussioni. Ma uscendo, infine, dal territorio della cronaca, è opportuno annotare che il cerchio si chiude perfettamente. Se Moscato, con il suo spettacolo, può invitare gli spettatori a mobilitarsi contro il sonno della ragione e la miopia dei potenti prendendo in prestito un verso soprattutto della canzone di Brecht: «Fa' che non cada improvviso il silenzio», d'altronde il Teatro Studio del Piccolo è stato intitolato a Mariangela Melato, che dedicò l'ultima sua fatica a «Il dolore» di Marguerite Duras. E della Duras compare nel recital di Moscato quell'«India song» che - l'ennesimo ossimoro - è percorsa dall'inizio alla fine da una straziata e tuttavia dolcissima contraddizione: «Canzone, tu che non vuoi dir niente e tu che mi dici tutto». Non è lo scarto medesimo fra la Napoli dell'ignavia, che tace, e la Napoli della poesia, che grida giorno dopo giorno la propria sia pur lacera dignità? Enrico Fiore(«Il Mattino», 20 ottobre 2013)