CONTROSCENA

Albertazzi, il rifiuto della recitazione


Come già ho avuto modo di osservare, la storia più interessante del teatro italiano di oggi è, riguardo agli attori, la storia di Giorgio Albertazzi. E tanto a partire da quel che Albertazzi mi disse, nel 2009, mentre si accingeva a interpretare «Edipo a Colono» nel Teatro Greco di Siracusa: Edipo «cerca nella morte quella verità che nella vita non c'è».   Se Sofocle (che scrisse «Edipo a Colono», l'ultima sua tragedia, sulla soglia dei novant'anni) s'identificò col proprio personaggio, Albertazzi (che i novant'anni li ha compiuti) s'identificò, insieme, con Sofocle e col suo personaggio. E voglio dire che mi sembra evidentissima una cosa. Nella parte conclusiva di una carriera lunga e prestigiosa Albertazzi sta cercando i testi per consegnarsi: a una fine della vita che sia l'inizio di una vita nuova, tale da tenere ancora accesi, nella nostra memoria, i dubbi e le domande suggeriti da lui attraverso le parole di quei testi.   Edipo, infatti, osserva che «solo agli dei non capita d'invecchiare per poi morire», ma in seguito aggiunge un accorato e orgoglioso «ricordatevi di me». E del resto, come interpretare altrimenti la scelta da parte di Albertazzi di dar voce, prima che all'Edipo che s'acceca perché vuole vedere oltre il limite dei significati dati, all'imperatore Adriano e al capitano Achab? Alla sua «piccola anima smarrita e soave» Adriano dice: «cerchiamo d'entrare nella morte ad occhi aperti»; e Achab s'inabissa inchiodato come Cristo sulla schiena di quella Moby Dick che, per l'appunto, è la sua inafferrabile verità.   Adesso dovrei parlare dello spettacolo che, ispirato alle «Lezioni americane» di Calvino, ha aperto, per la regia di Orlando Forioso, la stagione del teatro Troisi. Ma non ho appena detto, sia pur implicitamente, che non potrebbe darsi (in conseguenza del suo continuo entrare e uscire dalla recitazione) interprete migliore di Albertazzi per uno scrittore a proposito del quale Contini parlò di «realismo esistenziale» e Vittorini di una molteplicità d'interessi che «può prender forma sia in un senso di realismo a carica fiabesca sia in un senso di fiaba a carica realistica»?   Spesso Albertazzi - assistito dalla violoncellista rumena Anca Pavel e da Stefania Masala nel ruolo di un'allieva - s'allontana da Calvino per riproporre i propri celebri cavalli di battaglia: «La pioggia nel pineto», il Canto di Paolo e Francesca, citazioni da «Memorie di Adriano» e da «Amleto»… E poiché lo spettacolo verte, in effetti, sulla leggerezza, tema della prima delle «Lezioni», e alla leggerezza Albertazzi contrappone la pesantezza, ecco che - giusto - mi torna subito in mente il passo che, ne «La persuasione e la rettorica», Michelstaedter riferisce al peso: «[…] sempre lo tiene un'ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita, e in quel punto potesse possedere l'infinito scendere dell'infinito futuro, in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso. La sua vita è questa mancanza della sua vita».   Ebbene, il teatro è simile al peso di Michelstaedter: la sua maledizione consiste nel fatto che per sua natura è costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive. Ma Giorgio Albertazzi - ricorrendo da un lato alla propria autobiografia e dall'altro al richiamo dei più brucianti drammi del nostro tempo, come quello delle Torri Gemelle - trasforma la maledizione in grazia. Poiché mette al bando la paralisi della pura rappresentazione e fa di quest'ultima un pretesto per reinventare la vita.   Tutto si tiene, allora: dal momento che una delle più rapinose reinvenzioni della vita è la fiaba, torniamo in tal modo al cuore profondo della scrittura di Calvino. Ma ci torniamo, appunto, con passo leggero, senza la pesantezza del conferenziere.                                                    Enrico Fiore