CONTROSCENA

"Uomo e galantuomo" in un'orgia di gag


L'ho già scritto, ma giova ripeterlo. Sarebbe ora di convincersi che la «Cantata dei giorni pari» non è soltanto l'arena dei nodi farseschi, dei toni lievi e dei ritmi distesi, ma anche (e in certi casi soprattutto) il laboratorio in cui Eduardo fece le prove dei testi maggiori che poi comprese nella «Cantata dei giorni dispari» e - cosa davvero non secondaria - mise a fuoco i propri referenti autorali.   In «Uomo e galantuomo», per esempio, il marito cornuto conte Tolentano, per tutelare il suo onore, suggerisce ad Alberto De Stefano lo stesso stratagemma, il ricovero per qualche tempo in manicomio, che suggerisce il marito cornuto Ciampa a Beatrice ne «Il berretto a sonagli» che spessissimo lo stesso Eduardo recitò in ossequio al maestro Pirandello.   In breve, al suo primo cimento sulla distanza lunga dei tre atti, il giovanissimo Eduardo - ricordiamo che scrisse «Uomo e galantuomo» ad appena ventidue anni d'età - si muove su due fronti: quello scarpettiano (giusto per l'impianto farsesco della struttura drammaturgica qui adottata) e appunto quello pirandelliano (per il richiamo alle ciniche soluzioni compromissorie su cui si fonda la ricomposizione dell'ordine borghese violato).   Ma l'allestimento di «Uomo e galantuomo» in scena al Diana per la regia di Alessandro D'Alatri s'attesta esclusivamente sul primo dei due fronti citati. E lo fa con decisione assoluta: vediamo gag e ascoltiamo battute che per un venti per cento abbondante non sono di Eduardo e obbediscono al solo scopo di strappare risate facili. Basta considerare, al riguardo, il «ma le passarrà» con cui Attilio commenta il fatto che Viola «è un poco incinta». E inventato è pure il pistolotto che il capocomico Gennaro De Sia sciorina davanti al sipario chiuso. Inventato e per giunta pretestuoso: perché, mentre tira in ballo per l'ennesima volta la mistica stantìa del teatrante tutto bisogni e sogni, in realtà serve unicamente ad occupare il tempo durante il cambio di scena fra il secondo e il terzo atto.   Il paradosso, poi, è che a produrre questo spettacolo avulso dai risvolti pirandelliani del testo originale è un'associazione culturale che si chiama «La Pirandelliana». E non resta, dunque, che annotare l'efficacia con cui - beninteso entro i limiti descritti - si muovono Gianfelice Imparato (Gennaro De Sia), Giovanni Esposito (Attilio) e Antonia Truppo (Viola). Di livello inferiore risulta, invece, il rimanente del cast. Riesce a distinguersi appena Alessandra Borgia con i cammei disegnati nei ruoli della scalcagnata attrice Florence e di Matilde Bozzi, la suocera sussiegosa del conte Tolentano.                                                          Enrico Fiore(«Il Mattino», 1 novembre 2013)