CONTROSCENA

I mille e tre Don Giovanni di Timi


Quale Don Giovanni porta in scena Filippo Timi (adesso al Bellini) nella quadruplice veste di autore, regista, protagonista e scenografo? Certo, non è «El burlador de Sevilla» di Tirso de Molina, che in qualche modo costituì nel Seicento l'atto di nascita ufficiale del gran personaggio, né quello de «Il convitato di pietra» del Perrucci e di Puskin, né quello che compare nei canovacci dei comici dell'Arte. E non è, ovviamente, il Dom Juan di Molière o il Don Giovanni di Mozart.   La risposta alla domanda, allora, possiamo ricavarla dal ritratto disegnato da Giovanni Macchia, che di Don Giovanni fu uno dei massimi esperti: «La leggenda di Don Giovanni sconfina da tutte le parti. Ha accenti comici ma contiene in sé qualcosa di sovrannaturale e di miracoloso (...) È una leggenda che si accende di contrasti. C'è lo sprezzatore d'ogni parola e d'ogni fede. Dall'altra parte, l'amore costante, ostinato. C'è il riso e il delitto, il piacere confinato nei limiti più angusti del senso, e il dolore».   Insomma, Don Giovanni è come la vita, muore non appena si determina. Si spiega così il fatto che quel mito sia tanto presente nel teatro: poiché, per l'appunto, il teatro è perennemente costretto, dalla sua natura, a fingere la vita nel momento stesso in cui vive. E da tutto questo discende l'eccellente idea che presiede a «Il Don Giovanni» di Timi, davvero non a caso corredato del sottotitolo «Vivere è un abuso, mai un diritto». Come già l'Amleto de «Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche», qui Don Giovanni - allo scopo di superare la paralisi del risaputo e del proverbiale - adotta (del resto in linea con la partenogenesi della propria multiforme identità) l'espediente di diventare ipertrofico.   Basta, in proposito, considerare l'attacco e il finale dello spettacolo, entrambi scanditi dalla «Vesti la giubba» di Leoncavallo: nel primo Don Giovanni, seminudo, si avvia verso una dimensione «altra» bucandosi e nel secondo si avvia verso la morte indossando un coacervo fatto dei costumi e delle capigliature delle sue «conquiste». In breve, il Don Giovanni di Timi sembra applicare a se stesso il famoso catalogo di Leporello, si moltiplica per mille e tre.   Ma, poi, il merito raro dell'allestimento sta nel fatto che non rinuncia nemmeno a una virgola delle premesse teoriche di cui sopra e, tuttavia, riesce a tradurle - con intelligenza e gusto congiunti - in una sarabanda inesausta, e molto divertente, di nonsense e slittamenti di senso, battutacce da villaggio turistico e citazioni raffinate, scarti surreali e stilemi dell'intero panorama spettacolare odierno, dalla commedia musicale di Broadway al karaoke. Immaginate, insomma, un Almodóvar in sala pop invece che mélo.   Farei, al riguardo, almeno gli esempi della Donna Anna che inchiodata sulla sedia a rotelle parla della sua magrezza mentre sul fondale scorrono le immagini dell'esercizio alla trave di una minuscola ginnasta cinese e del Leporello/Cristiano che rivolge a Donna Elvira /Rossana le parole strategiche che gli suggerisce dall'ombra Don Giovanni/Cyrano. E pare proprio superfluo, d'altronde, sottolineare l'apporto che a un impianto del genere danno le scene di Timi e gli splendidi costumi di Fabio Zambernardi.   Ottima, infine, anche la resa del cast: accanto allo stesso Filippo Timi - un Don Giovanni che, al pari del precedente Amleto, si muove sul filo di un egocentrismo debordante, quasi fosse a sua volta un regista dispotico, e mefistofelico e machiavellico - son da citare fra gli altri Umberto Petranca (Leporello), Marina Rocco (Zerlina), Elena Lietti (Donna Anna) e Lucia Mascino (Donna Elvira). Davvero uno spettacolo da non perdere.                                                Enrico Fiore(«Il Mattino», 3 dicembre 2013)