CONTROSCENA

Beckett, un respiro sul ciglio del silenzio


«Non posso più far niente. Dir niente. Ma devo dire di più». E poi: «Le cose hanno una loro vita». Sono queste, oltre ogni dubbio, le battute-chiave di «Giorni felici». Con un particolare: Beckett scrive «le cose» in corsivo, a significare, evidentemente, che solo le cose hanno una loro vita.   Ebbene, Andrea Renzi - regista dell'allestimento di quel bellissimo e importantissimo testo che la Melampo e lo Stabile di Torino presentano nella Sala Assoli - mette in campo, al riguardo, un'invenzione decisiva: nell'impianto scenografico di Lino Fiorito, Willie comincia le sue manovre nevrotiche e misteriose da dietro un paravento. Ed è, d'accordo, un richiamo a «I Paraventi» e alla crudeltà ontologica di Genet; ma è anche, e soprattutto, la sottolineatura oltremodo intelligente del tema centrale dei due atti in questione.   La Winnie di Beckett è «interrata» al centro di un monticello «d'erba inaridita»: in altri termini è inesorabilmente confitta nell'esistenza o, per dirla con Heidegger, sconta e patisce «la deiezione nell'esserci». Le rimangono appena le parole («il vecchio stile», ripete sempre Winnie). Ma non a caso lei sta lì a trafficare ininterrottamente con gli oggetti, i più vari, che tira fuori da una sua sporta. In sintesi, le parole non sono più significanti, e si riducono a puri suoni, come a un semplice eco della vita ancora pulsante. Tanto è vero che l'unica parola a cui Winnie dà importanza costituisce un'eclatante tautologia: «Sì, la vita, direi che non c'è altra parola».   Dunque, l'estremo rifugio concesso a Winnie (così come a noi tutti) resta, per l'appunto, il legame con le cose. E, di pari passo, l'ultima consolazione (o meglio, per dirla con Beckett, «benedizione... travestita») è la coscienza della loro immutabilità. Ciò che, s'intende, vale anche e soprattutto per il corpo. Ed eccolo, il paravento: qui è in atto uno scontro all'ultimo sangue fra l'irriducibile realtà delle cose e il dovere di ricorrere alle parole come all'abito con cui, giusto, ci tocca vestirci per «nominare» quella realtà e, quindi, tentare di «possederla».   Insomma - parafrasando il titolo del film di Robbe-Grillet - direi che «Giorni felici» dà luogo non a un discorso, ma solo a ineffettuali spostamenti progressivi del linguaggio; e che, in breve, la Winnie di Beckett è una perfetta applicazione della teoria sartriana del linguaggio come «corpo verbale».   Ma infine, bisogna fermarsi - senza trascurare il Willie puntualissimo di Roberto De Francesco -  su Nicoletta Braschi: certo sulla sua straordinaria prova d'attrice, ancorata a una rete fittissima di sguardi tremanti e intrepidi insieme, di gesti minimi eppure aureolati di allusioni innumerevoli; ma più ancora sulla sua presenza diafana e dolce, sul che di smarrito e tuttavia tenero e forte che libera nei nervi e nel cuore.   Il «vecchio stile» di Beckett mi fa pensare al «marmo consunto degli avi» di Georg Trakl, uno dei grandi, disperatissimi e indomabili cantori della «finis Austriae». E come la poesia di Trakl è una luce che brilla sul ciglio del buio, così la recitazione di Nicoletta è un respiro che alita sul ciglio del silenzio.                                              Enrico Fiore(«Il Mattino», 9 dicembre 2013)