CONTROSCENA

Se l'Inquisitore si scontra con Mefisto


A proposito de «La leggenda del Grande Inquisitore», lo spettacolo in scena ancora oggi al Troisi, s'impone una premessa. Il poema «Il Grande Inquisitore», che Dostoevskij incastra nella vicenda «privata» dei fratelli Karamazov, soltanto all'apparenza è una parabola di natura religiosa e morale. In realtà, mette sul tappeto i temi dell'astrazione e dell'ideologia. E sono questi a costituire il dramma che qui si sviluppa: anzi, il doppio dramma o, se volete, il dramma nel dramma. Perché dell'astrazione e dell'ideologia sono prigionieri sia Ivan che il suo personaggio.   Infatti, giova considerare che Ivan quel poema non l'ha scritto, ma solo inventato e tenuto a mente; e adesso lo racconta al fratello Alioscia perché non trova altro modo per esprimersi. Di pari passo, il Grande Inquisitore protagonista del poema non condanna Cristo, tornato fra gli uomini, perché non ne condivide i comandamenti, ma perché giudica l'umanità troppo debole per osservarli. Secondo il Grande Inquisitore, insomma, questa nuova missione di Cristo verrebbe a turbare la vita imbelle, ma comoda, in cui le masse si sono adagiate.   Siamo, quindi, anche allo scarto fra il pensiero e l'azione, e fra la scrittura e la parola parlata. Molto significativamente, dunque, nello spettacolo in scena al Troisi il serrato dibattito concettuale che impegna i due personaggi in campo è preceduto - in quell'ambiente gelido e asettico, che allude, insieme, a un ospedale (vedi il bip del rivelatore cardiaco che si sente dall'inizio alla fine) e alla dimensione mentale propria del testo - da una lunghissima sequenza iniziale muta, in cui i personaggi medesimi si esprimono unicamente attraverso i movimenti e i gesti. E la scritta «FEDE», in alto a destra, è un neon tremolante, come se fosse sempre sul punto di spegnersi.     Nello stesso tempo, il passaggio dal poema soltanto inventato da Ivan al racconto che lo stesso Ivan ne fa al fratello traduce esattamente il percorso (in cui consiste l'evento teatrale) dal testo alla messinscena. E «La leggenda del Grande Inquisitore» - questa l'idea eccellente del regista Pietro Babina - si fonda proprio su tale percorso. Di qui l'adozione, come interlocutore del Grande Inquisitore, del personaggio inventato di Mefisto al posto del Cristo che compariva, poniamo, nello spettacolo di Peter Brook «The Grand Inquisitor».   Il richiamo, inutile dirlo, è alla coppia Faust-Mefistofele: giacché, se Mefistofele promette a Faust l'eterna giovinezza, allo stesso modo il teatro cavalca l'illusione perenne di far coincidere il desiderio della vita con la vita. E non a caso, allora, vediamo in uno specchio il volto che aveva Umberto Orsini quando, negli anni Settanta, interpretò lo sceneggiato di Sandro Bolchi tratto, appunto, da «I fratelli Karamazov».   In tutta evidenza, ricorre, così, il continuo scambio che sempre si determina, sul palcoscenico, fra l'attore e il personaggio, ossia fra il corpo e l'immagine. Finché, nella sequenza conclusiva, Umberto Orsini - fino a quel momento affiancato dal bravo Leonardo Capuano nel ruolo di Mefisto - «esce» dallo spettacolo e, rimasto solo al proscenio, ci regala la vertiginosa fusione di se stesso col Grande Inquisitore. Non perdetevelo.                                                         Enrico Fiore(«Il Mattino», 15 dicembre 2013 - www.controscena.net)