CONTROSCENA

Una donna e i suoi uomini di carta


«Quando scrivo per il teatro non sto scrivendo veramente per il teatro. Il lavoro del dramaturg è ben altra cosa dal soliloquio contenuto in queste pagine, così come in altre». Lo dichiara Valeria Parrella in una nota a «Ciao maschio», il suo atto unico che lo Stabile napoletano presenta nel Ridotto del Mercadante. E precisa, ulteriormente, che «ben lo sanno i registi chiamati a fare vita e carne da protagoniste di carta».   A sua volta, il cireneo comunemente detto critico teatrale non può far altro che prendere atto. Perché il plot messo in campo dalla Parrella - una donna che, dopo un intervento chirurgico, passa mentalmente in rassegna tutti gli uomini della propria vita, fino al padre ch'è stato l'unico a lasciarla libera - si determina e si sviluppa per l'appunto nell'alveo di una letterarietà che, se sulla pagina scritta funziona, sulle tavole del palcoscenico risulta piuttosto ingessata e paralizzante. Per intenderci, l'effetto è quello del flusso di coscienza trasformato in Ermete Zacconi.   Per giunta, parliamo di un testo che oscilla, senza decidersi, fra l'opzione del sentimento e la tentazione del proclama. E a sottolinearlo è ancora la stessa autrice: mentre nella nota citata afferma che «"Ciao maschio" non è e non vuole essere uno scritto ideologico», poi, nella conversazione con Lella Costa annessa al copione, dice della sua protagonista di cinquanta-sessant'anni: «le ho dato quest'età perché volevo farla affondare con la giovinezza nel Sessantotto».   Al contrario, appare non poco meritoria ed efficace l'azione che rispetto al testo porta avanti la regia di Raffaele Di Florio. L'obiettivo è duplice: da un lato ci si adopera, giusto, a rivestire di «fisicità» tutto ciò che in «Ciao maschio» s'ammanta di «concettosità»; e dall'altro ci si preoccupa di evitare che il realismo sfoci nel bozzetto melodrammatico. Vedi, tanto per fare un esempio, la webcam che - durante la risentita invocazione a Matteo - sfregia e a poco a poco cancella il volto in primissimo piano della donna distesa sul suo letto d'ospedale.   Allo stesso scopo obbedisce, sempre per fare un esempio, la sostituzione della «danzatrice dal corpo così sinuoso» con un'assai più prosaica «ragazza con gli occhi da gatta». E tutto questo, infine, si riassume e si esalta nella recitazione gelida, come un basso continuo della trepidazione esistenziale, adottata impareggiabilmente da Cristina Donadio. Al suo fianco il padre di Antonio Casagrande è uno squisito cammeo. E forse la donna muore, poiché presentata dal regista e dall'interprete come reduce da un metaforico trapianto del cuore. Così l'estremo soffio di lei, «ciao maschio», ricorda la poesia di Trakl, l'ultimo guizzo di luce sul ciglio del buio.                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino», 4 novembre 2009)