In una poesia composta per i funerali di Wedekind, a cui partecipò, il giovane Brecht evoca sia l'immagine del Giullare («Gaukler») sia quella del Corvo («Rabe»): ovvero la festa e la disgrazia, il gioco e la maledizione. E mi son subito tornati in mente, quei versi, mentre assistevo all'allestimento di «Risveglio di primavera» che, per la regia di Tommaso Tuzzoli, ha aperto la stagione del Nuovo. Me li ha ricordati, in particolare, lo scarto fra la delicatezza della ninna nanna di Brahms e il kitsch dell'elogio della masturbazione di Gaber declamato alla ribalta da un attore con la faccia di Marilyn sui boxer. Basterebbe questo scarto a dire dell'intelligenza e della precisione messe in campo da Tuzzoli. Perché sta proprio nella compresenza degli opposti la caratteristica decisiva dell'opera di Wedekind. E «Risveglio di primavera», uno dei capolavori assoluti del teatro moderno, ne fornisce una dimostrazione lampante. Come sappiamo, il testo in questione - datato 1891 e che reca il sottotitolo «Una tragedia di fanciulli» - costituisce una violentissima requisitoria contro la morale guglielmina: un attacco che si traduce nella storia di un gruppo di adolescenti colti nel passaggio difficile alla maturità e, dunque, sospesi fra i primi turbamenti sessuali, il repressivo clima familiare/scolastico e i sensi di colpa che da tale conflitto scaturiscono. Il risultato è che due dei giovanissimi protagonisti della storia moriranno, Moritz suicida e Wendla d'aborto. E un esempio eclatante della compresenza degli opposti di cui dicevo consiste, al termine del primo atto, nella scena fra Wendla e Melchior, che comincia nei toni di una sorta d'idillio campestre e finisce in un'autentica tregenda sado-masochistica di frustate e scariche di pugni. In breve, sono i contrasti del genere che fanno di Wedekind - a sua volta sospeso tra la freddezza intellettuale e un'ironia sarcastica spinta sino ai limiti della farsa, sia pure d'esiti surreali - uno dei grandi padri dell'avanguardia storica, dall'espressionismo ad Artaud. E illuminanti, al riguardo, sono le invenzioni di Tuzzoli: come, poniamo, quelle degli studenti «imprigionati» nell'Iliade recitata in greco e dei professori ridotti dalla lampada stroboscopica e dal pulsare della musica techno a pupazzi meccanici da comica finale. E bravissimi, s'intende, risultano gl'interpreti, primi fra tutti Andrea Capaldi (Moritz) e Silvio Laviano (Melchior). Ma lo spettacolo, davvero da non perdere, si riserva addirittura di procurare una fitta al cuore. Accade quando le corse mano nella mano in uno con la canzone di Scott Matthew «Language» (per quegli adolescenti è la disperata comunicazione dell'esserci) rimandano, né più né meno, all'ombra che grava sulla leopardiana «stagion lieta». Enrico Fiore («Il Mattino», 8 novembre)
La primavera "nera" di Wedekind
In una poesia composta per i funerali di Wedekind, a cui partecipò, il giovane Brecht evoca sia l'immagine del Giullare («Gaukler») sia quella del Corvo («Rabe»): ovvero la festa e la disgrazia, il gioco e la maledizione. E mi son subito tornati in mente, quei versi, mentre assistevo all'allestimento di «Risveglio di primavera» che, per la regia di Tommaso Tuzzoli, ha aperto la stagione del Nuovo. Me li ha ricordati, in particolare, lo scarto fra la delicatezza della ninna nanna di Brahms e il kitsch dell'elogio della masturbazione di Gaber declamato alla ribalta da un attore con la faccia di Marilyn sui boxer. Basterebbe questo scarto a dire dell'intelligenza e della precisione messe in campo da Tuzzoli. Perché sta proprio nella compresenza degli opposti la caratteristica decisiva dell'opera di Wedekind. E «Risveglio di primavera», uno dei capolavori assoluti del teatro moderno, ne fornisce una dimostrazione lampante. Come sappiamo, il testo in questione - datato 1891 e che reca il sottotitolo «Una tragedia di fanciulli» - costituisce una violentissima requisitoria contro la morale guglielmina: un attacco che si traduce nella storia di un gruppo di adolescenti colti nel passaggio difficile alla maturità e, dunque, sospesi fra i primi turbamenti sessuali, il repressivo clima familiare/scolastico e i sensi di colpa che da tale conflitto scaturiscono. Il risultato è che due dei giovanissimi protagonisti della storia moriranno, Moritz suicida e Wendla d'aborto. E un esempio eclatante della compresenza degli opposti di cui dicevo consiste, al termine del primo atto, nella scena fra Wendla e Melchior, che comincia nei toni di una sorta d'idillio campestre e finisce in un'autentica tregenda sado-masochistica di frustate e scariche di pugni. In breve, sono i contrasti del genere che fanno di Wedekind - a sua volta sospeso tra la freddezza intellettuale e un'ironia sarcastica spinta sino ai limiti della farsa, sia pure d'esiti surreali - uno dei grandi padri dell'avanguardia storica, dall'espressionismo ad Artaud. E illuminanti, al riguardo, sono le invenzioni di Tuzzoli: come, poniamo, quelle degli studenti «imprigionati» nell'Iliade recitata in greco e dei professori ridotti dalla lampada stroboscopica e dal pulsare della musica techno a pupazzi meccanici da comica finale. E bravissimi, s'intende, risultano gl'interpreti, primi fra tutti Andrea Capaldi (Moritz) e Silvio Laviano (Melchior). Ma lo spettacolo, davvero da non perdere, si riserva addirittura di procurare una fitta al cuore. Accade quando le corse mano nella mano in uno con la canzone di Scott Matthew «Language» (per quegli adolescenti è la disperata comunicazione dell'esserci) rimandano, né più né meno, all'ombra che grava sulla leopardiana «stagion lieta». Enrico Fiore («Il Mattino», 8 novembre)