Delle note di regia di Arturo Cirillo relative al suo «Otello» - adesso in scena al San Ferdinando nell'agile traduzione di Patrizia Cavalli - mi ha colpito subito questa frase: «La gelosia esiste dal momento che la si nomina». Cirillo, così, individua e sottolinea come meglio non si sarebbe potuto il nodo fondamentale della celebre tragedia. Che è il problema del linguaggio. Basta pensare a Jago, che non a caso è il motore dell'azione. Già Giraldi Cinthio - l'autore della novella, la settima della terza decade dei suoi «Hecatommithi», che costituisce la fonte del Bardo - mette l'accento sulle «alte e superbe parole» con cui quel personaggio maschera il proprio «vilissimo animo». La stessa Desdemona, del resto, lo definisce «parolaio» (atto II, scena I). E Jago spinge la capacità di padroneggiare il linguaggio sino al punto d'identificarsi, per essere più convincente, con quello delle vittime prescelte. La prima delle quali, Otello, dovrà quindi constatare: «Perdio! Costui mi fa l'eco» (atto III, scena III). È qui - ben al di là della trama, abbondantemente melodrammatica - la vera, moderna e geniale consistenza della tragedia di Shakespeare: Jago, per trasferire il «mostro» che ha creato (appunto quello della gelosia) nella mente e nell'animo del Moro, non trova di meglio che adottare, giusto, le parole dello stesso Otello. Del quale ultimo, d'altronde, sappiamo che conquista Desdemona con il racconto delle proprie vicissitudini. In breve, s'invera nella circostanza la nota formula sartriana del linguaggio come «corpo verbale». E rispetto a tutto questo Cirillo, al suo primo Shakespeare, ha costruito uno spettacolo non solo intelligente e bello, ma anche innovativo. A partire dalla fenditura fra i due alti muri adottati dallo scenografo Dario Gessati: è, spesso, la via d'entrata e d'uscita dei personaggi, e rimanda, insieme, allo scarto fra significante e significato previsto per l'appunto dalla filosofia del linguaggio e alla «frontiera invisibile» di Musil, «la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell'uomo». Strepitose, infine, appaiono - nel quadro di una rappresentazione coerentemente scandita dal leitmotiv del travestimento (vedi, all'inizio, le maschere da classico Carnevale veneziano, vedi il nero sparso sulla faccia di Otello a chiazze, come il trucco incompleto di un attore) - le prove dei protagonisti, tutte improntate alla recita esibita: Danilo Nigrelli, lo stesso Cirillo e Monica Piseddu fanno, rispettivamente, di Otello un autentico catalogo dei vezzi mattatoriali, di Jago un guitto debordante e di Desdemona una svampita suffragetta hollywoodiana. Ma son bravi tutti. Da applausi e applausi. Enrico Fiore(«Il Mattino», 19 novembre 2009)
Otello e Jago con la maschera delle parole
Delle note di regia di Arturo Cirillo relative al suo «Otello» - adesso in scena al San Ferdinando nell'agile traduzione di Patrizia Cavalli - mi ha colpito subito questa frase: «La gelosia esiste dal momento che la si nomina». Cirillo, così, individua e sottolinea come meglio non si sarebbe potuto il nodo fondamentale della celebre tragedia. Che è il problema del linguaggio. Basta pensare a Jago, che non a caso è il motore dell'azione. Già Giraldi Cinthio - l'autore della novella, la settima della terza decade dei suoi «Hecatommithi», che costituisce la fonte del Bardo - mette l'accento sulle «alte e superbe parole» con cui quel personaggio maschera il proprio «vilissimo animo». La stessa Desdemona, del resto, lo definisce «parolaio» (atto II, scena I). E Jago spinge la capacità di padroneggiare il linguaggio sino al punto d'identificarsi, per essere più convincente, con quello delle vittime prescelte. La prima delle quali, Otello, dovrà quindi constatare: «Perdio! Costui mi fa l'eco» (atto III, scena III). È qui - ben al di là della trama, abbondantemente melodrammatica - la vera, moderna e geniale consistenza della tragedia di Shakespeare: Jago, per trasferire il «mostro» che ha creato (appunto quello della gelosia) nella mente e nell'animo del Moro, non trova di meglio che adottare, giusto, le parole dello stesso Otello. Del quale ultimo, d'altronde, sappiamo che conquista Desdemona con il racconto delle proprie vicissitudini. In breve, s'invera nella circostanza la nota formula sartriana del linguaggio come «corpo verbale». E rispetto a tutto questo Cirillo, al suo primo Shakespeare, ha costruito uno spettacolo non solo intelligente e bello, ma anche innovativo. A partire dalla fenditura fra i due alti muri adottati dallo scenografo Dario Gessati: è, spesso, la via d'entrata e d'uscita dei personaggi, e rimanda, insieme, allo scarto fra significante e significato previsto per l'appunto dalla filosofia del linguaggio e alla «frontiera invisibile» di Musil, «la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell'uomo». Strepitose, infine, appaiono - nel quadro di una rappresentazione coerentemente scandita dal leitmotiv del travestimento (vedi, all'inizio, le maschere da classico Carnevale veneziano, vedi il nero sparso sulla faccia di Otello a chiazze, come il trucco incompleto di un attore) - le prove dei protagonisti, tutte improntate alla recita esibita: Danilo Nigrelli, lo stesso Cirillo e Monica Piseddu fanno, rispettivamente, di Otello un autentico catalogo dei vezzi mattatoriali, di Jago un guitto debordante e di Desdemona una svampita suffragetta hollywoodiana. Ma son bravi tutti. Da applausi e applausi. Enrico Fiore(«Il Mattino», 19 novembre 2009)