CONTROSCENA

Carmelo Bene tradito per amore


«Il tutto ch'è mai stato e poi finì». Sono le ultime parole de «'l mal de' fiori», il vertiginoso poema che dieci anni fa valse a Carmelo Bene l'acclamazione come «poeta dell'impossibile» da parte della Fondazione Schlesinger istituita da Montale. E (ci abbia pensato o meno l'autrice) potrebbero costituire l'epigrafe ideale di «Fosca: vite parallele», il melologo che Luisa Viglietti, la sua ultima compagna, ha dedicato al gran Demiurgo dell'Assenza, presentandolo al San Carlo nell'ambito della rassegna «nonsolopiano».   Il testo è tratto per l'appunto da «Fosca», il romanzo incompiuto di Igino Ugo Tarchetti in cui si narra dell'ufficiale Giorgio che, sull'amore limpido e gioioso per la bella e solare Chiara, finisce per innestare quello morboso e disperato per la bruttissima e malata giovane del titolo. Le due donne sono, evidentemente, le facce della stessa medaglia, e talmente opposte che, non potendo ridursi a un unicum, incarnano esse stesse l'idea dell'incompiuto. Tarchetti riassunse l'irriducibile ossimoro nei versi di «Memento!»: «Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, / obbliar non posso, cara fanciulla, / che vi è sotto uno scheletro nascoso».   Ora, io non so se davvero, come asserisce la Viglietti, Bene fece, del romanzo di Tarchetti, «una costante della sua vita di artista e di uomo». Ma indubitabili appaiono le consonanze fra il divino Carmelo e lo scapigliato Igino Ugo. Basterebbe pensare all'ultimo spettacolo di Bene, «In-vulnerabilità d'Achille». Era fondato soprattutto sull'«Achilleide» di Stazio, un'opera anch'essa interrotta, come «Fosca», dalla morte dell'autore. E il trattino che nel titolo separava l'«in» e la «vulnerabilità» indicava proprio la clausura in un'insormontabile «malattia».   Senonché, lo spettacolo del San Carlo, a Bene dedicato, risulta poi esattamente il contrario di quanto lui teorizzò e mise in pratica. E intendiamoci, non è che non siano bravi Lella Costa (voce recitante), Paolo Fresu (tromba) e Roberto Herlitzka (voce registrata). È che qui si precipita nella rappresentazione, mentre Carmelo era contro il «salutismo», contro «l'anima bella dei poeti», contro «i sentimenti», in particolare «l'amore che ci affanna»: in una parola contro «tutto quello che è io, quello che è identità».   Carmelo Bene, insomma, nel teatro - che, come diceva, è «il non-luogo del nostro buio» - si diede allo splendido e orgoglioso esercizio del mestiere di morire dell'attore in quanto tramite di messaggi. E proprio al San Carlo, nell'anno del Signore 1980, citò la Roma di Pasternak: quella «senza burle e senza ciance, / che non prove esige dall'attore, / ma una completa autentica rovina».                                                    Enrico Fiore(«Il Mattino», 26 maggio 2010)