CONTROSCENA

Il pazzo di Gogol' ora vive in un armadio


Come sappiamo, nelle opere di Gogol' la provincia russa occupa uno spazio larghissimo e decisivo. Sta di fatto, però, che lui la vide solo una volta, quando dovette fermarsi per alcuni giorni a Kursk in attesa che gli riparassero la carrozza. E basterebbe un esempio del genere a dimostrare che le opere di cui parliamo vanno lette sulla base dello scarto permanente fra la dimensione mentale e l'«esterno», ossia il mondo e la società. Ciò che si traduce, ovviamente, nella compresenza dell'astratto e del quotidiano.   Ebbene, Andrea Renzi - regista di «Diario di un pazzo», lo spettacolo, tratto da uno de «I racconti di Pietroburgo», che Teatri Uniti dà nel Ridotto del Mercadante - sottolinea un simile quadro come meglio non si potrebbe: Popriscin, l'antieroe del racconto in parola, ci si presenta venendo fuori da un armadio (appunto la dimensione mentale) che poi diventerà di volta in volta il guardaroba, la casa e l'ufficio (appunto la quotidianità e la società) di quest'altro prototipo delle «anime morte».   Per giunta, su un'anta dell'armadio è attaccata una cartolina del Ravello Festival (ovvero la messinscena) che reca, fra gli altri, i volti di Wagner (ovvero il contrappunto), di Gide (ovvero il soggettivismo) e di Boccaccio (ovvero il realismo). Insomma, Renzi punta sull'interscambio fra la letteratura e la storicizzazione: tanto che Popriscin - l'impiegatuccio di Gogol' che a poco a poco impazzisce, complici la routine alienante del lavoro e l'amore impossibile per la figlia del capoufficio - nel suo allestimento diventa Papaleo, si esprime con un accento a metà fra il campano e il lucano e indossa, nello stesso tempo, un tipico berretto russo e vestiti ordinari dei primi anni Cinquanta, giusto l'epoca in cui si formò e si affermò in Italia la casta dei burocrati.   Si esaltano, così, da un lato la dimensione del delirio di cui è prigioniero il personaggio, quella dimensione che trova l'acme quando Popriscin parla del manicomio nel quale è stato chiuso come della corte di Spagna da lui raggiunta nelle vesti di nuovo re; e, dall'altro, la coscienza tuttavia persistente della verità della vita e dell'impossibilità per le parole (vedi l'intercalare: «Niente, niente... silenzio») di esorcizzarne o mascherarne il grigiore e le sconfitte.   Viene in mente Nabokov, che della riduzione della realtà a una dimensione mentale s'intendeva come pochi e che, infatti, si occupò molto di Gogol'. E tutto questo discorso, infine, s'invera e coagula nella prova maiuscola offerta da Roberto De Francesco: un Popriscin/Papaleo tanto visionario quanto dolente, e che - sia pure inscritto nella nevrosi - corre nel vento lieve di una tenera e indomita poesia.                                                Enrico Fiore(«Il Mattino», 13 febbraio 2011)