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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Il dolente Giobbe di Nekrosius

Post n°728 pubblicato il 10 Ottobre 2013 da arieleO
 

«Giobbe, come la "Pietà Rondanini" di Michelangelo, è la maturità dell'incompiuto, la supremazia dell'abbozzo sull'immagine perfetta, del ruvido sulla superficie lisciata». Così un commentatore della statura di José Luis Sicre Díaz. E a questo ho ripensato mentre al Teatro Olimpico di Vicenza mi accingevo a vedere lo spettacolo di Eimuntas Nekrosius ispirato, per l'appunto, a «Il libro di Giobbe».
   Non c'è nulla di più incompiuto, di più imperfetto e di più ruvido della condizione in cui si dibatte l'uomo di oggi; e tuttavia proprio quella condizione può offrire lo stimolo a guardarsi dentro e a cercare delle risposte alla sofferenza e allo smarrimento. È a tale salvifico ossimoro che allude Giobbe quando dichiara: «Perciò rifiuto polvere e cenere, ma ne sono consolato»(42,6).
   Non a caso, d'altra parte, «Il libro di Giobbe», giudicato il capolavoro della letteratura biblica, è un vero e proprio testo teatrale e, per la precisione, uno dei più alti e risolti testi del teatro processuale: giacché verte, soprattutto, sui dialoghi fra Giobbe, che si ribella di fronte alle sue ingiuste sofferenze, e Dio, che lo invita a considerare quelle sofferenze come un mezzo per avvicinarsi alla verità - problematica ma esaltante - dell'esistenza umana nel mondo. E tanto senza dimenticare, naturalmente, i dialoghi fra Giobbe e i tre amici (Elifaz, Bildad e Zofar) venuti a confutare i suoi lamenti.
   Insomma, altro che il Giobbe del proverbio, a sua volta partorito da una preesistente novella popolare inglobata ma, poi, smentita dal testo biblico: nel quale Giobbe arriva a chiamare Dio «aguzzino dell'uomo» (7,20) e si chiede: «Quale sarà la mia fine se avrò ancora pazienza?» (6,11).
   Ma Nekrosius punta sparato sulla novella: tanto è vero che ne fa ripetere pari pari il racconto per ben tre volte, e non solo a Giobbe ma anche a Dio e a Satana. E con ciò, evidentemente e indubitabilmente, vuol sottolineare da un lato l'immutabilità della condizione umana e dall'altro la specularità fra bene e male all'interno di una visione della vita come patimento senza scampo e recriminazione senza sosta. In breve, il suo Giobbe si pone sotto specie di un autentico antieroe del dolore.
   Altrettanto evidentemente, siamo, dunque, al cospetto di un'interpretazione de «Il libro di Giobbe» piuttosto riduttiva. E questo, si capisce, a prescindere dalla capacità del maestro lituano di mettere in campo la potenza delle immagini che costituisce la sua dote precipua: basterebbe, al riguardo, l'esempio della danza in cui i cassetti di una scrivania vengono sventolati a mo' d'inutili ali per significare l'impotenza del sapere libresco rispetto ai misteri del Creato.
   Così pure, si confermano ancora una volta le straordinarie qualità espressive della Meno Fortas, l'ormai celebre compagnia di Nekrosius. Fra i suoi componenti in scena per l'occasione vanno citati almeno Remigijus Vilkaitis (Giobbe) e Salvijus Trepulis (Dio). Ma questo è tutto. L'insieme, come già mi capitò di osservare a proposito dei due allestimenti dedicati da Nekrosius alla «Commedia» di Dante, in fondo - più che suscitare il brivido connesso alle creazioni poetiche - desta l'impressione di un esercizio laboratoriale.

                                                          Enrico Fiore

(«Il Mattino», 10 ottobre 2013)

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