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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Messaggi del 09/11/2013

Neiwiller, la poesia come impegno civile

Post n°742 pubblicato il 09 Novembre 2013 da arieleO
 

Con lo spettacolo «Titanic the end» - riallestito da Salvatore Cantalupo, uno degli interpreti dell'edizione originaria - prende il via stasera alle 20,30, nella Sala Assoli, un omaggio ad Antonio Neiwiller nel ventennale della scomparsa. Lo spettacolo sarà poi replicato dal 21 al Teatro Antonio Ghirelli di Salerno e dal 29 al Civico 14 di Caserta.
   Al Teatro Vascello di Roma, invece, avrà luogo dalle 18,30 di domani l'incontro «Antonio Neiwiller al cinema», con testimonianze circa le sue interpretazioni al fianco di Carlo Cecchi, Nanni Moretti, Toni Servillo, Andrea Renzi e Renato Carpentieri e la proiezione de «Il monologo de "L'altro sguardo"» di Rossella Ragazzi e di scene tratte da «Morte di un matematico napoletano» di Mario Martone e «Caro diario» di Nanni Moretti. L'incontro verrà riproposto alle 11,30 di domenica presso l'ex Asilo Filangieri di Napoli.
   Fin qui la cronaca. Ma s'impone subito una domanda: visto che nel 2003, a dieci anni dalla morte prematura di Neiwiller, anche Pierpaolo Sepe allestì uno spettacolo ispirato, appunto come quello di Neiwiller, a «La fine del Titanic» di Enzensberger, perché proprio il titolo in questione appare ineludibile ogni volta che cadono simili anniversari?
   La risposta, ovviamente, sta nella storia. E giova ricordare, in proposito, che il primo spettacolo significativo di Neiwiller, che aveva appena fondato con Carpentieri la cooperativa «Teatro dei Mutamenti» (in seguito confluita in Teatri Uniti insieme con Falso Movimento di Martone e il Teatro Studio di Servillo), fu, nel 1977, «Maestri cercando: Elio Vittorini». Uno spettacolo il cui titolo non sarebbe potuto essere più esplicito: giacché per un verso indicava la volontà (e il bisogno) di rintracciare sicuri punti di riferimento sul piano teorico e per l'altro precisava, giusto facendo il nome di Vittorini, che quei punti di riferimento non potevano prescindere da una caratterizzazione «militante».
   In Neiwiller, difatti, l'attività artistica e l'impegno civile e politico furono incessantemente e strettissimamente congiunti. E di qui scaturì l'attenzione prevalente rivolta alla Parola: quella poetica soprattutto, poiché lo stesso Neiwiller era, del resto, scrittore di poesia.
   Parliamo, in breve, di una tensione ideale e culturale che davvero non a caso trovò in Pasolini una fonte d'ispirazione decisiva. Voglio dire che la ricerca di Neiwiller va riferita all'obiettivo che per l'appunto Pasolini indicò nel suo celebre manifesto «Per un nuovo Teatro»: quello di sostituire al «teatro della Chiacchiera» un teatro che trovi «il suo "spazio teatrale" non nell'ambiente ma nella testa».
   In altri termini, l'obiettivo di Antonio Neiwiller fu sempre, e irrinunciabilmente, il colloquio creativo con il pubblico. E dunque, il cerchio si chiude perfettamente: se penso che Enzensberger, mentre nel '63 iniziava «Origine di una poesia» dichiarando: «Signore e Signori, non ho niente di nuovo da dirvi», poi scrisse quasi sempre in seconda persona. Era l'eroico tormento dell'ansia di comunicare. Lo stesso che incarnò Neiwiller quando, nei panni del povero fantaccino impaurito de «Il desiderio preso per la coda» di Picasso diretto da Martone, abbandonava la baionetta per stringersi al petto - ultima difesa ed arma rintracciabili - soltanto un fraterno fiasco di vino.

                                                          Enrico Fiore

(«Il Mattino», 8 novembre 2013)

 
 
 

Il "Fuitevenne" di Marina Confalone

Post n°743 pubblicato il 09 Novembre 2013 da arieleO
 

Soltanto lei - la Marina Confalone che come nessun'altra diede voce al sogno amarissimo della Maria de «Le voci di dentro» - poteva appropriarsi il fatidico «Fuitevenne» di Eduardo sino a farne, addirittura, il titolo del testo che presenta alla Galleria Toledo nella triplice veste di autrice, regista e protagonista.
   L'idea forte che anima queste «tre scene immaginarie di vita e morte a Napoli» è quella di un confronto tra l'immobilità e il parossismo: nella prima abbiamo lo scontro di un camorrista con la figlia demente che si rifiuta al matrimonio d'interesse combinato da lui, nella seconda lo sproloquio di una ragazzina rivolto al bronzeo sorriso immutabile di un pescatorello di Gemito mentre la madre e le sue amiche giocano a carte, nella terza il volo di un giovane filosofo suicida davanti alla «cartolina» col cielo, il Vesuvio e il mare.
   Direi, insomma, che non si poteva rendere meglio, sotto specie di simbolo e di metafora, lo scarto che a Napoli scontiamo fra la voglia eterna di scappare e il misto di affetto e di astenia che ci costringe a restare. E siccome, lo ripeto, l'autrice e protagonista di questo «Fuitevenne» è l'attrice che sappiamo, ecco che il teatro fa continuamente capolino, e continuamente si confonde con la realtà. Vedi le battute: «Che dove sta scritto, dico io, si deve fare a forza 'sto teatro?» e «La parte che mi dette il Capocomico m'ha stancato».
   Si capisce, quindi, che il testo della Confalone trova uno dei suoi più efficaci strumenti espressivi nello slittamento di senso ironico. E anche se contiene taluni «luoghi» scontati o ingenui (come, poniamo, la frecciata contro i «baroni» universitari o la citazione di Che Guevara), gli stessi, in ogni caso, passano in secondo piano di fronte al preciso paradigma espressivo disegnato dalla regia.
   Nell'atmosfera di sospensione determinata dalle musiche di Paolo Coletta, i personaggi si stagliano nel vuoto e nel nero quali perfetti equivalenti degli scarsi arredi: e proprio perché costituiscono delle semplici «funzioni» rispetto alle variabili del problema (giusto il dilemma: fuggire o restare?) posto sul tappeto. E l'acme, in tal senso, si raggiunge con quella mamma e quelle amiche ridotte a fantasmatiche sagome proiettate su un velatino e connotate soltanto da battute registrate.
   Ottima, infine, la prova di Marina Confalone in quanto attrice. E per quanto risultino più scolastici i comprimari Giovanni Martino e Mario Di Fonzo, parliamo comunque di uno spettacolo da vedere.

                                                          Enrico Fiore

(«Il Mattino», 8 novembre 2013)

 
 
 
 
 

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