Counselling di Yaris

Potere e dominio nelle pratiche di cura


  
La porta si apre e il moribondo dal suo letto d’agonia vede entrare la femmina accabadora. Lei è “l’accoppatrice”, tanto per rendere comprensibile il termine. È vestita di nero e una delle sue gonne è sollevata a coprirle il viso. È arrivata l’ora. Lui da quel momento sa che l’abbraccio che avrà da quella donna sarà l’ultimo della sua vita. C’è un tempo remoto, che sopravvive nelle memorie anche recenti degli abitanti della Sardegna, in cui tutto questo è assolutamente plausibile. Ad inseguire il filo delle prove documentali o a sviscerare le etimologie c’è da diventar matti. Accabadora dallo spagnolo acabar, terminare o ancor più dal sardo accabaddare può significare incrociare le mani al morto, o ancora mettere a cavallo e quindi far partire. Guai a chi, con esili competenze di antropologia imparaticcia, si avventura, come me, nei misteri millenari della Sardegna. Qui ogni storia, diceria, formula magica, canzone o parola, si muta e viene interpretata diversamente spostandosi anche solo di cento metri. Dirò solamente che nessuno mi ha negato di aver sentito parlare di una professionista della morte. […] È in Barbagia, nella Sardegna più restia all’onta della civilizzazione, che l’accabadora ha un modo di operare che la rende ancora più vicina a una madre […] quando operava era come se volesse risucchiare la vittima attraverso la matrice che l’ha generata. […] E dai ricordi di chi vive da quelle parti sembra che la sterminatrice di moribondi abbia lasciato quasi un fondo di nostalgia per come compiva quell’atto estremo suscitando terrore ed erotismo incollati assieme. La donna si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del morente tra le sue gambe. Lo accarezzava e cominciava a cullarlo come fosse un bambino. Gli cantava la stessa ninna nanna che lui si sarà sentito cantare dalla propria madre, quando finalmente l’agonizzante torna infante lei lo uccide con la forma più sensuale di strangolamento. Se non basta lo soffoca con un cuscino.La Stampa, 1 maggio 2005