Avevamo guadagnato per tempo le prime file, noi ragazzi seduti per terra nell’Odeo del Padiglione Italia ai Giardini. Era la Biennale del 1970, forse. La giornata di apertura, o forse no. Ma certamente quell’attesa fu non tanto lunga quanto piena di emozione. Dalla cupola del salone, carica ancora del figurativo di Galileo Ghini (ultimi segni di uno spazio destinato sempre più all’astrattismo e alle avanguardie del mondo), cadevano due grandi teli ancora bianchi. Erano le ‘tavolozze’ predestinate al sacrificio, a totale disposizione del Maestro. Vuoi per la Biennale, per la Bevilacqua La Masa, per Pegghy Guggenheim, a Venezia erano presenti o passavano tutti.In quei giorni, anni felici per Venezia, erano di casa o erano attirati o chiamati da Mazzariol o da Scarpa, da Mazzotti o da Marchiori : Wright, Le Corbusier, Kahn. Ma, di più, al convento della Carità erano lì presenti per noi, vivi, al lavoro : Alberto Viani, Saetti, altri ancora e Vedova.
EMILIO VEDOVA, una memoria
Avevamo guadagnato per tempo le prime file, noi ragazzi seduti per terra nell’Odeo del Padiglione Italia ai Giardini. Era la Biennale del 1970, forse. La giornata di apertura, o forse no. Ma certamente quell’attesa fu non tanto lunga quanto piena di emozione. Dalla cupola del salone, carica ancora del figurativo di Galileo Ghini (ultimi segni di uno spazio destinato sempre più all’astrattismo e alle avanguardie del mondo), cadevano due grandi teli ancora bianchi. Erano le ‘tavolozze’ predestinate al sacrificio, a totale disposizione del Maestro. Vuoi per la Biennale, per la Bevilacqua La Masa, per Pegghy Guggenheim, a Venezia erano presenti o passavano tutti.In quei giorni, anni felici per Venezia, erano di casa o erano attirati o chiamati da Mazzariol o da Scarpa, da Mazzotti o da Marchiori : Wright, Le Corbusier, Kahn. Ma, di più, al convento della Carità erano lì presenti per noi, vivi, al lavoro : Alberto Viani, Saetti, altri ancora e Vedova.