“[...] messo sotto controllo il fiore di loto del cuore, si raggiunge Bhumi e attraverso la via mediana che porta verso l'alto, dopo aver posto Prana tra le sopracciglia, si raggiunge lo splendente Purusha che emana luce”
Shankara Bhagavadpada – commento alla Bhagavad Gita VIII, 9,10.
Il 1° febbraio del 2007, giorno del mio compleanno, mi arrivò, dono inaspettato, una cassa di libri, quasi tutti traduzioni di testi di Shankara e di altri autori di quella che allora mi sembrava una scuola filosofica: l'Advaita Vedanta, o vedanta non duale.
Tra le pagine della Bhagavad Gita c'era un biglietto: “Caro fratello ti prego di accettare questi libri. Sono sempre appartenuti a te.....”.
Bello.
Cominciai a studiare come un forsennato, andavo anche al bagno con i libri di Shankara, mi sembrava di “essere tornato a casa”.
Un giorno, dopo un paio d'anni , Shankara mi apparve.
Lo so che sembra strano, ma praticando Yoga ho vissuto spesso stati di alterazione percettiva con allucinazioni visive e uditive: luci colorate, simboli, suoni acuti come campanelli o cupi come un tuono d'inverno. Una volta mi è apparso un intero monastero tibetano con tanto di monaci in tonaca amaranto. Credo che si tratti di una elaborazione del cervello, di una qualche funzione del sistema nervoso centrale: quando metto a fuoco un insegnamento o intravedo la soluzione di un problema si forma, in meditazione, un'immagine tridimensionale (e tangibile, in molti casi), una proiezione delle mie riflessioni a cui sono avvezzo, forse sbagliando, a dar fiducia, quasi fosse uno spirito buono, o un maestro interiore.
Comunque sia mi apparve Shankara.
Ero sulla spiaggia di Ansedonia, seduto in padmasana e “respiravo il mare” con gli occhi fissi sulla punta del naso. A un tratto, tipo venere che spunta dalle onde, esce dall'acqua un monaco shaiva con le vesti arancioni, le tre linee bianche sulla fronte e la mala di rudraska in mano.
Camminava piano verso di me.
E sorrideva.
Si fermò, per qualche istante, a un paio di metri e poi mi sparì dentro.
Io lo sapevo che era una specie di allucinazione, ma in qualche modo la presi come un segno: pensai di aver compreso, o di essere sul punto di comprendere, dopo due anni di studio forsennato, gli insegnamenti dell'Advaita Vedanta.
Ricordo che ero stupidamente felice.
Pensavo che sarebbe successo qualcosa, qualcosa di bello e di molto ma molto importante.
E invece, di lì a poco, cominciarono i problemi.
Su un sito internet indiano trovai una serie di testi di Shankara, mai tradotti in italiano, che parlavano di asana, di kundalini, di cakra....ovvero di corpo fisico.
Quello che avevo studiato e continuai a studiare anche dopo, non “mi tornava più”.
Quello che credevo il nucleo dell'insegnamento di Shankara, la teoria dell'Ajati Vada, del “Mai Nato”(così come me la avevano insegnata) che mi sembrava così profonda, logica, onnicomprensiva mi pareva mostrasse delle smagliature.
Molti commentatori occidentali (e non solo) parlando dell'advaita vedanta mettono in risalto la scarsa importanza che questa scuola attribuisce alle pratiche dello hatha yoga e del kundalini yoga.
Sulla base della teoria dell'illusione, il Mayavada, costoro arrivano ad abbracciare le idee di alcuni buddisti Theravada, che vedono il corpo come un inutile sacco pieno di fluidi corporei, ed a creare, infine, una contrapposizione tra il Vedanta Advaita e il Tantrismo, tra la pratica dell'auto-indagine tesa a mostrare l'inesistenza sostanziale, o l'apparenza fenomenica di tutto ciò che chiamiamo corpo, emozioni, individualità (il Ko'Ham) e le tecniche psicofisiche (asana, mudra, kriya).
Il sistema interpretativo dell'advaita vedanta occidentalizzato strizza l'occhio a Platone e alla filosofia tedesca del XIX e XX secolo e lascia intendere che si può progredire nella via dello yoga e raggiungere la cosiddetta illuminazione senza perder tempo ad annodarsi le gambe e senza conoscere la complessa fisiologia sottile su cui si basa lo hatha yoga.
Lo Shankara dell'advaita vedanta occidentalizzato sembra insegnare la superiorità del lavoro di destrutturazione del pensiero sul mero lavoro fisico ricreando, paradossalmente (advaita vuol dire non duale) la dicotomia corpo-mente o materia-spirito che caratterizza l'insegnamento cattolico in cui siamo nati e cresciuti.
E' facile che un intellettuale occidentale si innamori di questa teoria affascinante (e non priva di effetti sul comportamento e sulla personalità dei praticanti), ed è anche possibile che qualcuno raggiunga la cosiddetta illuminazione o realizzazione o comunque stati di coscienza tra virgolette”elevati”, seguendo questi insegnamenti.
Ma, non è l'insegnamento di Shankara.
A molti questo non interesserà affatto, anzi il commento più comune sarà, probabilmente, “E ALLORA?”, ma per me in qualche modo si tratta di una rivelazione dagli effetti devastanti.
Molto di ciò che ho letto, studiato e anche scritto negli anni passati, si basava sulla differenza sostanziale, almeno a livello qualitativo, tra il lavoro (il Sadhana) dell'advaita vedanta e quello del tantrismo.
La pratica fisica, lo hatha yoga, credevo, poteva essere al massimo, un punto di partenza, “una scala verso il raja yoga” (il sistema di Patanjali, maestro del maestro del maestro di Shankara), il figlio di un dio minore.
E invece la via di Shankara (vedi loShankaravija di Anandagiri o il commento all'Ananda Lahari di
Pandit Ananda Shastri) era proprio quella: lo Hatha yoga con tanto di Cakra, Nadi e Kundalini che sale.
Il commento del capostipite della Advaita Vedanta alla Bhagavad Gita, mai pubblicato in Italia, ne è, secondo me, una prova inconfutabile.
Shankara era allievo di Gaudapadacharya
(un maestro di cui, in Italia o forse nell'intero occidente, si conosce quasi esclusivamente per i suoi karika-commenti- alla Mandukya Upanishad) i cui testi più importanti ( mai tradotti in Italia) sono:
1) il Subha Godaya Stuti, in cui si descrive il triplice aspetto di Kundalini (Fuoco, Sole e Luna) e la sua risalita attraverso la pratica del Mantra di Kama (Ka E I La Hrim Ha Sa Ka Ha La Hrim Sa Ka La Hrim.
2) L'Uttara Gita Bhashya, in cui si spiegano gli insegnamenti di Hatha Yoga impartiti da Krishna ad Arjuna.
3) Il Durga Saptashati Tika in cui si tessono le doti di Durga (Shri Bhagavati) e si descrive la sua vittoria contro il demone Mahishasura.
In questi tre testi è contenuta l'essenza delSamayachara, o meglio del Tantra.
Gaudapada era uno yogin del Kashmir (del Bengala secondo alcune fonti) ed era unmaestro delle pratiche di Kundalini.
Shankara era un suo allievo ed era unmaestro della via dei Mantra.
Per molti questo non significherà niente.
Per me è assai importante.
Significa che le dotte disquisizioni e gli accesi dibattiti sulle differenze tra tantra e vedanta che riempiono i forum di filosofia, i libri delle case editrici specializzate e riecheggiano nelle conferenze e nelle lezioni universitarie sono completamente campate in aria.
La verità dei testi e semplice e chiara: la linea di insegnamento di quello che noi chiamiamo advaita vedanta è la stessa del tantra. Gorakanath, di Abhinavagupta, di Lallaisvari.
Lo yoga di Patanjali, Gaudapada, Shankara è lo stesso yoga insegnato da Gorakanath, Abhinavagupta, Milarepa: Asana, Mantra, Mudra, Cakra, Nadi, Kundalini, questo e solo questo è lo Yoga.
Che poi sia lecito o meno definireYoga delle pratiche derivate da concezioni particolari o inventate di sana pianta è un altro discorso, che a me interessa relativamente poco.
Come relativamente poco mi interessano i motivi che hanno spinto molti a scindere e dividere ciò che appare, sin dall'inizio, come un unico sistema.
Lo yoga è uno e si basa sulla pratica di asana, mudra, mantra e sulla conoscenza della fisiologia sottile.
Non mi sembra che ci sia molto altro da aggiungere.
OM ADESH!
P.
Inviato da: minarossi82
il 11/11/2016 alle 18:33
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