DakarliciousUn blog di Chiara Barison |
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Post n°348 pubblicato il 26 Aprile 2018 da djchi
"Il Senegal per me è come uno specchio. Nel Senegal mi sono rivista come persona, nel bene e nel male. Il Senegal ti impone di guadarti dentro, quindi anche di vedere le cose che in te non vanno. Siamo sempre abituati a criticare, a vedere il difetto nell'altro. A me ha insegnato proprio questo, imparare ad accettare la diversità perché è in Senegal che ho imparato che anche io posso essere diversa". Da un mio contributo andato in onda il 25 aprile nella trasmissione "Il migliore dei mondi" su Nova Radio in una puntata dedicata proprio al #Senegal Di seguito il Podcast http://podcast.novaradio.info/2018/04/26/il-migliore-dei-mondi-25-aprile-2018/
Un altro mio intervento, sempre su Radio Nova nella trasmissione "Onde Migranti" in una puntata sempre dedicata al Senegal andata in onda il 23 aprile.
http://podcast.novaradio.info/2018/04/24/onde-migranti-23-aprile-2018/ |
Post n°347 pubblicato il 11 Settembre 2017 da djchi
"Si chiama “Afrique Positive” un movimento di giovani attivisti senegalesi che ha come obiettivo principale la valorizzazione del territorio e la riuscita in loco. [...] Il nome stesso del movimento - Afrique Positive - intende sottolineare ciò che di positivo il continente africano ha da offrire, senza cadere nelle banalità dell’afro-entusiasmo o dell’afro-pessimismo. I giovani attivisti sono bensì afro-realisti: coscienti dei problemi e delle sfide che il continente vive, ma motivati nel divenire essi stessi motore di uno sviluppo che comincia innanzitutto con il rivoluzionare le mentalità e i punti di vista" Di seguito il link all'articolo da me scritto per l'AICS sede di Dakar:
http://www.aics.gov.it/?p=15643
Sotto il video della rubrica Parmi Nous andata in onda il 23 agosto 2017 sulla TFM in cui è stato presentato il movimento Afrique Positive:
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Post n°346 pubblicato il 27 Febbraio 2017 da djchi
Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta
“Quattordici volte. Ho provato quattordici volte ad attraversare il Mediterraneo”. Così racconta Mansour guardandomi dritto negli occhi. Pensavo di non aver capito bene, mi sembrava quasi impossibile che una persona potesse tentare un viaggio di quel tipo per così tante volte. “Hai capito bene invece, Chiara, quattordici volte”, mi precisa con un sorriso amaro. Sono confusa, allibita, impressionata. “Ho visto e vissuto tutto: la fame, il freddo, la solitudine; gli spari della polizia, la prigione, la morte” continua Mansour. “A farmi partire è stata una conoscente, amica di mia madre. Mi hanno scelto. Sì, mi hanno letteralmente scelto tra tutti i miei fratelli e credo che l’abbiano fatto sapendo che sono una persona sempre pronta ad aiutare. Eppure io non volevo partire. In Senegal lavoravo, ma il mio stipendio era poco più di 150 euro al mese. Avevo calcolato che mi sarebbero serviti poco più di mille euro per avviare una piccola attività. Ho provato a chiederli in prestino ma né amici, né parenti me li hanno voluti dare. Me ne hanno dati però molti di più per partire” racconta Mansour. Lo osservo, è un giovane uomo, alto e imponente. È vestito bene e in lui tutta quell’italianità che ritrovo in tanti migranti senegalesi che ritornano in Senegal. La migrazione cambia, questo è certo. E, soprattutto, coscientizza le persone. “Raccontami del viaggio” gli chiedo diretta. “Sono partito con un visto turistico per la Turchia. Ad aspettarmi, un senegalese. Devi sapere Chiara che in questi tragitti, c’è sempre una persona che fa da tramite con gli scafisti e sono sempre connazionali. Se sei senegalese, troverai un senegalese; se sei gambiano, un gambiano e così via. Dopo appena un giorno dal mio arrivo questo intermediario senegalese mi ha chiesto soldi. Avevo con me cinquecento euro ma mi ha detto che non bastavano. Ho chiamato allora in Senegal. Un parente ha venduto la macchina e in meno di due giorni mi hanno mandato i soldi. Gli ho dato allora la somma e lui mi ha indicato l’ora e il luogo della partenza. Dovevamo attraversare il mare in direzione della Grecia. Al tramonto io ed altri migranti siamo stati caricati in un camioncino. Il tragitto è stato breve, la polizia ci ha intercettato subito, alcuni sono riusciti a scappare a piedi attraverso i campi. Io ricordo solo che non avevo praticamente nulla con me, solo un piccolo borsello e qualche indumento. Ho corso pure io ma sono stato preso”. “Come hai vissuto il carcere?” gli chiedo. “Non posso raccontarti tutto, stai mangiando. Ti dico solo che le condizioni erano davvero difficili. Troppe persone in spazi angusti e un’unica uscita al giorno per andare in bagno. Uscivamo a gruppi di quattro, solo ed unicamente per pisciare” si ferma un attimo e mi guarda mangiare un panino con delle verdure. Ride “sai Chiara, da quel giorno io non ho più mangiato pomodori. Ogni giorno ci davano da mangiare una sola volta ed era sempre la stessa cosa: un piccolo panino e qualche pomodoro a parte”. “Raccontami delle quattordici volte” incalzo. “Una volta uscito dal carcere, sempre tramite lo stesso intermediario senegalese, ho tentato la traversata più volte. A guidare le imbarcazioni erano sempre migranti che venivano scelti tra quelli del gruppo, di preferenza chi aveva già avuto esperienza con la navigazione in mare e se non c’era, sceglievano a caso e gli spiegavano al momento in maniera grossolana alcuni rudimenti della navigazione, facevano salire tutti sulla barca e la facevano partire. Nessuno dei trafficanti voleva guidare l'imbarcazione per paura di essere preso. Ci hanno intercettato quasi sempre. Al quattordicesimo tentativo la barca si è fermata non lontano dalle coste greche. Non ci ho pensato un attimo, mi sono buttato, nonostante il freddo e nonostante la paura. Per fortuna sapevo nuotare” “Hai mai avuto voglia di tornare?” gli chiedo. “No. Mai. Dovevo arrivare in Europa. Ero stato scelto e non potevo fallire. Troppe persone dipendevano da me” risponde sicuro. “E poi com’è andata?” chiedo curiosa. “In Grecia mi sono appoggiato a reti di senegalesi, ci sono stato qualche tempo ma non mi piaceva. Sono riuscito poi a partire per l’Italia e lì, grazie alla mia statura e alla mia corpulenza ho trovato quasi subito un lavoro presso un’agenzia di sicurezza”. Mansour tace improvvisamente e quel suo sguardo forte e fiero cede improvvisamente. Abbassa gli occhi e mi dice: “Sai Chiara, io ho il dovere di parlare, di raccontare la mia storia. Le persone devono conoscere il vero volto della migrazione. Qui in Senegal pensano che io ce l’abbia fatta, vivo in Italia da anni, ho un lavoro e un buono stipendio. Ma se dico che non ho soldi nel mio conto in banca non mi credono. Quanti giovani sarebbero disposti ai sacrifici che ho fatto e che faccio quotidianamente? Ad alzarsi all’alba e a tornare la notte per un costo della vita elevato che ti permette davvero poco in termine di risparmio? I tempi in cui i senegalesi vivevano stipati in una stanza per non spendere sono finiti, oggi ognuno ha il suo appartamento e servono soldi. E poi, al di là del lato economico, quei duecento euro che mando ogni mese ai miei figli non colmeranno mai il vuoto delle mie assenze. La migrazione mi ha insegnato tanto, se non fossi partito non avrei mai preso coscienza del valore che il mio paese ha e delle possibilità che realmente ci sono, ma mi ha tolto pure tanto. Mi ha tolto il sorriso, mi ha fatto perdere mia moglie, che stanca di aspettarmi ha chiesto il divorzio e mi ha tolto il tempo, quel tempo che nessuno mi ridarà mai più indietro e che avrei potuto passare con la mia famiglia. I giovani devono saperlo” mi dice Mansour. Io ascolto. Le sue parole fanno riflettere pure me perché conosco quel dolore legato agli affetti, lontani. “Adesso il mio solo obiettivo è il ritorno. Voglio tornare a casa e aprire quell’attività che già anni fa volevo avviare “ sospira Mansour e il suo sospiro è triste, quasi sarcastico. "Poco più di mille euro. Mi sarebbero bastati, Chiara, e pensare che ne hanno sborsati molti di più per farmi partire".
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Post n°345 pubblicato il 28 Marzo 2016 da djchi
Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa ![]() Fonte: SUNU NATAAL Pagina Facebook Privilegio. Questo è il punto di partenza con cui leggere questo breve scritto. C'è chi ha il privilegio di viaggiare con grande facilità e chi no. Buona lettura. Ho spesso l’impressione che questa sia una terra di passaggio, difficile mettere radici. I senegalesi, abituati a partenze improvvise e a ritorni a sorpresa, gestiscono probabilmente meglio le separazioni. Uno dei miei più cari amici, cresciuto nella periferia di Dakar, ha creduto talmente tanto che un giorno sarebbe partito che c’è riuscito davvero. Vive a Berlino, lavora nel mondo della notte e si è sposato con una bella ragazza dai capelli lunghi, biondi e gli occhi verdi. Hanno avuto pure una bimba e lui è per molti l’emblema della riuscita. Poco tempo fa è tornato per un viaggio lampo a Dakar. Non lo ha detto a nessuno, altrimenti avrebbe dovuto gestire una lunga lista di parenti in visita e in attesa di una ricompensa (per la visita si intende), così invece no, sarebbe arrivato a casa all’improvviso e, altrettanto velocemente se ne sarebbe andato, il tempo di non doversi giustificare per il mancato incontro con il numeroso parentado. Nonostante il poco tempo a disposizione è venuto a trovarmi portando un regalo per mio figlio. Sembravano passati decenni dall'ultimo nostro incontro eppure fino ad un paio d'anni fa ci vedevamo a Pikine. Nel vederlo, ho avuto anche io la certezza che il suo progetto migratorio fosse assolutamente riuscito. Lo vedevo felice. Si occupa lui della moglie, mi racconta, perché così lei ha tempo di stare con la bambina di pochi mesi. Chi ci crederà qui che la "bianca" se ne sta a casa mentre lui la mantiene, pensavo io nel frattempo. Partire e stabilirsi in Europa è ancora un obiettivo di molti ed è ancora così radicato che esperienze migratorie come la mia appaiono quasi bizzarre. Perché mai decidere di venire in Senegal e di battersi per raggiungere quello che probabilmente in Europa sarebbe già un punto di partenza? Nella mia mente scorro i nomi degli amici senegalesi incontrati in questi anni, quasi tutti partiti: Svizzera, Germania, Stati Uniti, Francia, Canada. Tutti o quasi venivano da situazioni di difficoltà economica e da quartieri popolari. Il ritorno in patria, un tempo meta fissa per la maggior parte dei migranti senegalesi, oggi non è più così certo. I viaggi che lo precedono, sempre più frequenti e sempre più brevi, mostrano non solo una certa e frequente accessibilità al paese natale ma anche che il dover rientrare per sempre è oggi una libera scelta della persona. Non tutti i senegalesi della diaspora hanno voglia di investire in Senegal, soprattutto visto la grande lucidità che acquisiscono stando lontani per anni e la capacità di analisi delle difficoltà legate all’imprenditoria in loco. Un rischio che non tutti si sentono di prendere. In molti hanno ormai una vita altrove, un lavoro, una famiglia. Le storie di doppie vite a cavallo tra due o più continenti è ormai storia di vecchie generazioni. I tempi cambiano e i pensieri si adeguano. Il Senegal preso a piccole dosi sembra quasi la soluzione migliore. I modou modou hanno forse capito prima di noi, sicuramente più di noi, che essere capaci di prendere da ogni luogo il meglio e sapersi spostare da un luogo all’altro senza troppo attaccamento e sempre e solo per un buon motivo sono le chiavi della riuscita. Vedo amici partire costantemente. Pensare di instaurare relazioni e pensarle sulla lunga durata (in termini di presenza fisica) è ormai un’utopia. Per una che ha tendenza ad attaccarsi alle persone è stato un percorso difficile ma importante. Il Senegal mi ha insegnato a staccarmi, a lasciar andare, anche a sostituire, laddove necessario e ad aspettare partenze, ritorni, passaggi, momenti. Delle persone ho imparato a godermi gli istanti, come i senegalesi riescono a fare anche e soprattutto dei luoghi e, devo dire, che come condizione non è poi così male.
Fonte: SUNU NATAAL Pagina Facebook |
Post n°344 pubblicato il 26 Ottobre 2015 da djchi
Celui qui veut assassiner un peuple, détruira son âme, profanera ses croyances, ses religions, niera sa culture et son histoire (J.M. Adiaffi) E’ graziosa e sorridente. Esile e leggiadra. La guardo camminare con eleganza tra le viuzze insabbiate del villaggio di Yoff. Con una classe che è di poche, saluta tutti, indistintamente e per ognuno trova sempre il tempo di discutere sembrando davvero interessata. Io la seguo, più goffa e lenta. Se non fosse per il mio lavoro in televisione passerei per la solita turista impacciata che si fa guidare tra i meandri di uno dei villaggi lebou della capitale senegalese. La gente è dovunque in un brulicare che stordisce. Disseminate qua e là piccole boutique, sartorie di strada, signore con il pagne tradizionale e la polo che mescolano, instancabili, le noccioline nella sabbia calda. Sento il profumo di pannocchie grigliate, questo è il periodo e si comprano a soli cento franchi mentre da dietro secchi di plastica colorati osservo ragazzi peul riempire sacchetti di sow (latte cagliato) con una rapidità che mi impressiona nonostante l’abitudine. Yoff è un pozzo senza fondo. Impossibile, anche volendo, scoprirne tutti i suoi infiniti misteri. (Foto 1. Fonte: Google.sn) Dalle case si entra e si esce, attraversando corti e sfiorando montoni. Qui tutti sono parenti, o meglio, tutti sono imparentati. Amina mi presenta tutti quelli che incontra e saluta. Molte sono zie, altri cugini. Il marito di sua madre lo chiama “père” (padre) ma non è suo papà. Sua madre si è risposata ed è seconda moglie. La incontriamo mentre passeggiamo e avvolta nel suo velo, imponente e matrona, mi punta il dito: “Ciara ana mew pour sama bébé?”, “C(h)iara, dov’è il latte per la piccola?”. Non so cosa risponderle. Amina mi dice di dirle che glielo porterò, InchAllah. La neonata, ovviamente, non è della mamma di Amina che la sua età già ce l’ha, eccome. E’ un’orfanella la cui vera madre è morta di parto. Sopravvissuta miracolosamente è stata affidata alla famiglia di Amina. Vivrà lì, almeno per ora. Succede spesso che al villaggio gli orfanelli siano “dati” ad una famiglia. Qui i servizi sociali non arrivano, tutto si gestisce autonomamente con il beneplacito degli “chef”(capi) di quartiere. Osservo la piccolina, è nera (davvero nera) e ha ancora le sopracciglia dipinte come tradizione impone vengano fatte per il battesimo. E’ avvolta in una pesante coperta di lana nonostante i trenta gradi ed il sole cocente. Resta per me un mistero questa moda dell’avvolgere i neonati con le coperte di lana che a Padova spopolano tra le comunità di immigrati. Amina mi porta da una zia, è infermiera ma quando torna a casa il suo ruolo è ben più importante, socialmente parlando: legge le conchiglie. Anzi, non proprio. Legge in una tazza d’acqua. Tradotto, genera speranza. (Foto 2. Fonte: Google.sn) La casa è come tante, tutte uguali. La corte è affollata di gente: uomini, donne, bambini. Alcuni lavorano, tutti parlano. Entro e mi vergogno un pò. “Ziara Ndiaye Guewel”, sussurra qualcuno dicendomi che mi “vede” alla TV. Annnuisco e saluto. Saluto tutti come Amina, sempre sotto la sua vigilanza attenta e protettiva. La zia leggerà il mio presente e il mio futuro, facendomi passare per prima. C’è una fila di donne e ragazze impressionante, tutte in attesa. Alcune si sventolano con il ventaglio, nessuna proferisce verbo. Dal parlare incessante della corte-mercato al silenzio di una sala d’attesa che ricorda quelle dei dentisti in Italia. La mia presenza desta un certo stupore, soprattutto dopo che, piegandomi per allacciare le scarpe, dal mio pantalone spunta la corda di un gri gri. “Thiey! Il Senegal sta cambiando” avranno pensato le signore . (Foto 3. Fonte: Google.sn) Entro, mi siedo e resto affascinata da quel salotto, così pieno e così zeppo da rendermi claustrofobica. Pelouche impolverati, centrini ingrigiti, fiori finti, l’immancabile televisione accesa, un frigo bar con annesso altro centrino e foto, tante foto. Foto che immortalano la zia in varie posizioni e vari eventi: matrimoni, battesimi e affini, sempre bellissima e sempre truccatissima. Al centro la foto con il marito, incorniciata da cuori e cuoricini, kitsch come solo i fotografi di Pikine riescono a fare. Vorrei immortalare quel salotto con una foto ma ho paura che si offenda. Lei, la zia, è vestita con un abito lungo di seta rosso che lascia intravedere il reggiseno leopardato, sempre rosso. Mi piace. Io ascolto e su suggerimento di Amina non parlo, per non indirizzarla nelle risposte. Devo ammettere che ci azzecca e pure molto. Elenca i sacrifici da fare e Amina prende nota meticolosamente. Dopo il terzo sacrificio, due cola rosse da dare con la mano destra a donna sposata, mi perdo. Ho mal di testa, mi sento soffocare. Usciamo e ripartiamo, donne in attesa, saluti di Amina, corte-mercato, saluti di Amina, stradine sterrate, saluti di Amina. Amina mi infila subito in boutique e mi compra le cose per i primi sacrifici, come mi dice lei, è sempre bene farli, l’importante è non fare e non volere il male di nessuno ma proteggersi, quello sì. Penso che abbia ragione, credo nel mistico, nell’energia. Torniamo a casa sua dove cerca di radunare i bambini per vedere chi tra loro ha i requisiti necessari per prendere i sacchetti di latte cagliato da cento franchi che io dovrò offrire. I bambini ascoltano e obbediscono. Per loro i sacrifici sono un’abitudine che non desta più alcuna sorpresa. Uscendo Amina mi spiega che attorno alla corte vi sono tutte camere di mogli. Camera di moglie di fratello, camera di moglie di cugino, camera di moglie di fratello che però non è fratello ma è come se lo fosse; la moglie però è morta, mi precisa. “A Yoff muore tantissima gente” mi dice tendendo l’orecchio alla moschea che annuncia proprio un decesso. Amina presta molta attenzione e io la osservo ancora, bellissima. E’ una delle mie poche amiche senegalesi, una delle poche che mi ha sempre aiutato come fosse una sorella. Vive in Spagna ma torna spesso, imprenditrice fai da te e moderna rivoluzionaria che anni addietro si oppose con forza ad un matrimonio combinato dalla mamma-matrona-peul. “Mi taggano di “rew” (maleducata) in tanti” mi dice, forse per quel suo atteggiamento pank (duro) e ribelle che nessuno è riuscito mai a domare, penso io. “Buttagli i 500 franchi sul sedile!” mi ha urlato qualche giorno fa quando un tassista si era rifiutato di portarmi fino a dove avevo concordato. Dopo averlo fatto tacere con tre frasi di cui non ho osato chiederle la traduzione, si è girata, mi ha preso per un braccio ed ha sbattuto la portiera. Io ho gettato i soldi con sprezzo, come mi aveva ordinato e per un secondo mi sono sentita Rambo. (Foto 4. Fonte: Google.sn) Amina mi fa entrare subito dopo in una camera che dà accesso ad un’altra camera. Intravedo una signora anziana, distesa, addormentata. “E’ malata”, mi dice una delle sue figlie. Questa vecchietta non è una vecchietta qualunque. Mi porgono qualcosa. Lo afferro e leggo “medaglia all’onore”, firmato, il Presidente della Repubblica. Mi rendo conto di essere in presenza di una personalità. “E’ la sacerdotessa ndeup di Yoff”, mi dicono ed ha 105 anni. La medaglia all’onore le è stata conferita per tutte le persone che ha guarito nella sua lunga carriera. Una signora-zia-parente ci tiene a farmi vedere un piccolo giardino recitanto e, quasi sussurrando mi dice: “E’ qui che si fa lo ndeup”. “E’ costoso?” chiedo a Amina. “Eh si, ci vogliono milioni” mi risponde. Sono un pò delusa. Speravo meno. Quasi quasi l’avrei fatto fosse stato meno caro ma oggi, in tempo di crisi, anche e soprattutto i toubab, non c’hanno 'na lira.... |
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