“Quando osservi il mondo, quando presti ascolto alle notizie di ogni giorno, cosa scorgi al primo sguardo?Solo cattive notizie, non ce n’è neanche una buona, sembra che non esistano.Le cattive notizie sono strettamente legate al primo sguardo […].Fermati un attimo, scruta in profondità […]. Non dare un’occhiata veloce per poi passare oltre. Osserva da vicino, in profondità. Ripeti la stessa cosa in modo sempre più consapevole. Questo ti porterà dentro.Se inizi ad osservare in profondità, la vita dischiude davanti a te la sua magia.Ogni giorno sperimento che non sono in accordo con nessuna statistica. Sono quelli che voi chiamate “miracoli”.Mi accadono continuamente, non perché io sia speciale ma solo perché cerco di andare in profondità.A chiunque ci provi può accadere la stessa cosa.”(B.Herrmann – Il cammello sul tetto. Discorsi sufi) Straniero.Questa parola rimanda alla prima lezione di sociologia a cui partecipai da studentessa presso l’Università di Trieste, ormai un po’ di anni fa.Ricordo un professore appassionato che spiegava come la definizione di ognuno di noi fosse intrinsecamente legata alla definizione dell’altro.L’alterità dunque come pilastro fondante dell’essere. Il bisogno di definire l’altro appare dunque naturale, e questo processo, di fronte ad una realtà sconosciuta passa, spesso, attraverso quelli che sono definiti stereotipi che, nel radicarsi, diventano poi pregiudizi.Il mio rapporto all’alterità comincia nell’infanzia quando sono stata definita “terrona” dai compagni di classe delle elementari. Non capivo il bisogno di essere categorizzata, eppure ero nata e cresciuta, come loro, in un paesino di campagna della provincia padovana. Io ero diversa e questa differenza andava detta, svelata. Terrona!Io ero il frutto di un matrimonio “misto”, mio padre, veneto, si era sposato con mia madre, siciliana, rompendo non poche convenzioni all’epoca.Gli altri definivano me, dunque, attraverso le origini di mia madre.“Guarda di non portarmi a casa un fidanzato terrone!”, mi ricordava spesso mia zia paterna quando andavo a trovarla.Nella mia testa di bambina provavo a mettere assieme queste informazioni, Nord e Sud non erano la stessa cosa, apparentemente, e chi provava ad infrangere i codici finiva nella macchina della svalutazione.Eppure la cosa non mi quadrava, non ne capivo il senso. Mia mamma per me era la mamma, indipendentemente da dove fosse nata. Non trovavo neppure che mio padre fosse da considerarsi in una posizione migliore perché veneto.In quel preciso momento è nata la mia coscienza della diversità che per me era in realtà ricchezza. Chi mi dava della terrona non aveva avuto modo di conoscere la Sicilia, la mia famiglia e i miei amichetti di laggiù.Non aveva vissuto, come me, a cavallo di due realtà, così diverse ma egualmente interessanti. Quel terrona urlato si trasformava in un impeto di orgoglio e nella rivendicazione che l’essere considerata diversa sarebbe diventato il mio punto di forza.Qualche decennio dopo, Padova, zona stazione. Sono seduta in un piccolo negozio di un barbiere nigeriano, Julius.Dallo schermo piazzato nel mezzo del locale è sparata a tutto volume la canzone “Do me” dei P-Square. All’interno un via vai di stranieri, africani per la maggior parte.
Racconti di un'altra emigrazione
“Quando osservi il mondo, quando presti ascolto alle notizie di ogni giorno, cosa scorgi al primo sguardo?Solo cattive notizie, non ce n’è neanche una buona, sembra che non esistano.Le cattive notizie sono strettamente legate al primo sguardo […].Fermati un attimo, scruta in profondità […]. Non dare un’occhiata veloce per poi passare oltre. Osserva da vicino, in profondità. Ripeti la stessa cosa in modo sempre più consapevole. Questo ti porterà dentro.Se inizi ad osservare in profondità, la vita dischiude davanti a te la sua magia.Ogni giorno sperimento che non sono in accordo con nessuna statistica. Sono quelli che voi chiamate “miracoli”.Mi accadono continuamente, non perché io sia speciale ma solo perché cerco di andare in profondità.A chiunque ci provi può accadere la stessa cosa.”(B.Herrmann – Il cammello sul tetto. Discorsi sufi) Straniero.Questa parola rimanda alla prima lezione di sociologia a cui partecipai da studentessa presso l’Università di Trieste, ormai un po’ di anni fa.Ricordo un professore appassionato che spiegava come la definizione di ognuno di noi fosse intrinsecamente legata alla definizione dell’altro.L’alterità dunque come pilastro fondante dell’essere. Il bisogno di definire l’altro appare dunque naturale, e questo processo, di fronte ad una realtà sconosciuta passa, spesso, attraverso quelli che sono definiti stereotipi che, nel radicarsi, diventano poi pregiudizi.Il mio rapporto all’alterità comincia nell’infanzia quando sono stata definita “terrona” dai compagni di classe delle elementari. Non capivo il bisogno di essere categorizzata, eppure ero nata e cresciuta, come loro, in un paesino di campagna della provincia padovana. Io ero diversa e questa differenza andava detta, svelata. Terrona!Io ero il frutto di un matrimonio “misto”, mio padre, veneto, si era sposato con mia madre, siciliana, rompendo non poche convenzioni all’epoca.Gli altri definivano me, dunque, attraverso le origini di mia madre.“Guarda di non portarmi a casa un fidanzato terrone!”, mi ricordava spesso mia zia paterna quando andavo a trovarla.Nella mia testa di bambina provavo a mettere assieme queste informazioni, Nord e Sud non erano la stessa cosa, apparentemente, e chi provava ad infrangere i codici finiva nella macchina della svalutazione.Eppure la cosa non mi quadrava, non ne capivo il senso. Mia mamma per me era la mamma, indipendentemente da dove fosse nata. Non trovavo neppure che mio padre fosse da considerarsi in una posizione migliore perché veneto.In quel preciso momento è nata la mia coscienza della diversità che per me era in realtà ricchezza. Chi mi dava della terrona non aveva avuto modo di conoscere la Sicilia, la mia famiglia e i miei amichetti di laggiù.Non aveva vissuto, come me, a cavallo di due realtà, così diverse ma egualmente interessanti. Quel terrona urlato si trasformava in un impeto di orgoglio e nella rivendicazione che l’essere considerata diversa sarebbe diventato il mio punto di forza.Qualche decennio dopo, Padova, zona stazione. Sono seduta in un piccolo negozio di un barbiere nigeriano, Julius.Dallo schermo piazzato nel mezzo del locale è sparata a tutto volume la canzone “Do me” dei P-Square. All’interno un via vai di stranieri, africani per la maggior parte.