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Religione e spiritualità. Una pin up tra gli alti prelati (Un'italiana in Senegal parte (a) parte)

Post n°272 pubblicato il 07 Giugno 2012 da djchi
 

 

Per amore si fanno tante cose. Per amore di se stessi, spesso e volentieri. Troppe volte crediamo di essere oppressi, soffocati o non capiti dall'altro. Mentiamo spudoratamente a noi stessi e agli altri quando proprio noi siamo gli unici conoscitori degli angoli più remoti di ogni nostra relazione. Innamorate di un'idea più che di una persona, immaginiamo storie che si sgretolano come argilla di fronte al primo abbaglio di realtà. «Se mi amassi ti convertiresti». Non pensavo mi sarebbe mai successo. Eppure l'amore non impone, libera, mi sono detta e quindi, imprigionata in una scelta, ho scelto di liberarmi da sola nella speranza che l'amore, quello vero, mi avrebbe davvero capito, avrebbe capito Chiara e l'avrebbe accettata così com'era, senza bisogno di falsi voti e di alcuna pressione.

 

La spiritualità è altro. E' altrove, lì, nel profondo del cuore di ognuno. Non servono parole, bastano i piccoli gesti quotidiani a farci capire che ognuno di noi non è qui per un caso.

 

Arrivo in un luogo di chiesa. Un luogo importante. Guardo veloce il mio tubino in wax giallo e blu da cui spunta un tatuaggio e mi sento in imbarazzo. «Era da tempo che non mi sentivo in imbarazzo» dico a Giulia scendendo dal taxi «Credo dal giorno dell' esame di maturità» aggiungo veloce, salutandola con la mano. Scendo di fronte ad un edificio rosa. Rosa. Tutto sa di chiesa e di preti, quell'odore di vecchio e di chiuso che all'improvviso mi ha riporta indietro negli anni, in una vecchia canonica di un paese della provincia padovana. Maledetto Proust. Mi siedo e mi sento goffa davvero. In meno di una manciata di minuti dimentico il motivo della mia visita. Nel mentre di un litigio con la gonna che volevo magicamente allungare e che, ribelle ed atea, si ritirava ad ogni mia pressione, è entrato il prete incaricato di incontrarmi. Il fatto che non abbia fatto caso ai miei tatuaggi mi ha messo subito a mio agio. Ad ognuno i suoi abiti talari. Gli racconto della mia ricerca su migrazione e conversione, lui ascolta curioso. Ha l'accento di un sudamericano ma è indiano, sulla quarantina. Mi sento finalmente libera di essere me stessa ed iniziamo una coversazione che è durata quasi due ore. «Credo che il problema della Chiesa sia la staticità» mi dice «i giovani hanno bisogno di qualcuno che li ascolti, che li capisca; qualcuno con cui poter dialogare e di cui avere fiducia». Sorride, il prete che sembra sudamericano ma che, invece, è indiano. «La religione è libertà, non oppressione. Sembra che oggi si cerchi di allontanare le persone invece che avvicinarle. Una visione cupa che non corrisponde al messaggio divino che è gioia, luce. Regole medioevali soffocano un sistema. Prendi per esempio la comunione, se una persona è divorziata non la può fare, eppure ci sono persone che sono state costrette a divorziare» mi dice, poi abbassa la voce come se qualcuno ci sentisse: «Io dico ai miei parrocchiani divorziati di andare a prendere la comunione in una parrocchia dove nessuno li conosce». Ride e sorrido anche io. Odio le generalizzazione e adoro trovare spiriti ribelli con il coraggio della sperimentazione. «Io ho una nipote che si è convertita all'Islam per amore ma sono stato l'unico della famiglia a non dirle niente. La libertà è essenziale di fronte a Dio. In India le famiglie sono tradizionaliste ed è molto difficile rompere una catena. Nella mia famiglia in molti l'hanno esclusa proprio per questo. Io no, casa mia è casa sua ed è pure casa del marito, musulmano».

La nostra conversazione è interrotta dall'arrivo di un cameriere che ci serve del thé e dei biscotti. Non mi stupirebbe se all'improvviso spuntasse la Regina. Cerco di mantenere la postura finto-classe-intellettuale ma i piccoli dettagli mi fregano. Ho un buco sul maglioncino che avevo messo sulle spalle.

«Il Vaticano ci rimprovera di non spingere alla conversione le persone. Ma possibile farlo? No. In India un indù che si converte rischia la vita e per me una vita è più importante di una conversione. Questa è una missione, la mia. E dovrebbere essere la nostra. Madre Teresa l'aveva capito ed è per questo che non parlava di conversione al cristianesimo, la religione lei la viveva con i gesti, ogni santo giorno. Questo era sufficiente a parlare per lei» continua il prete rivoluzionario-sudamericano-indiano. «In Senegal viviamo la convivenza pacifica tra religioni e, anche in altri paesi si dovrebbe lavorare sul dialogo interreligioso senza pensare al numero di fedeli che ognuno riesce a portare a sè. Nel mio piccolo cerco di lavorare sul superamento dei limiti per il rispetto sacro della libertà della persona».

 

Basta uno, mi dico. Basta solo uno. E rivedo tanto di me in lui. Al contrario suo colgo l'occasione per convertirlo al mio Blog, immaginanandomi gli alti prelati immigrati leggere i miei testi e ridere sotto un crocefisso. «Dakarlicious» dico a rallentatore per permettergli di scrivere. «D-a-k-a-r- licious» scandisco bene e mi sento molto stripper in un convegno di catechiste fondamentaliste cattoliche. «Licious».

All'improvviso mi porge una busta. E' un invito ad una festa super-mega-esclusiva. Tocco la carta intestata con il logo in rilievo. Roba di classe, altro che i nostri miseri bigietti da visita tagliati con la forbice e con tutti i bordi storti. Stasera l'ho tirato fuori e l'ho mirato e rimirato. Come sempre la mia vita mi regala momenti che non mi sarei mai immaginata e ridacchio pensando ai miei intrattenimenti diplomatici. Una pin up tra gli alti prelati. Prossimamente su queste canoniche (ups) pardon, schermi. Libertà e spiritualità e, come dicevo poco sopra, ad ognuno i propri abiti talari. Inch'Allah.

 

 

 

 
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