I di Montegiordano

Non siamo mai stati negrieri


ARTICOLI"Dossier. Speciale extracomunitari" - FdG Cesena, Marzo '90Siamo giunti al termine del nostro viaggio attorno al "pianeta immigrazione". Ma prima di congedarci dai nostri lettori la nostra piccola, grande comunità di militanti non poteva non ricordare Beppe Niccolai. Si, è vero, Beppe ci ha lasciati da cinque mesi ma per noi è vivo, in cammino, per indicarci la strada maestra.   E poichè Egli è presente ci siamo rivolti a Lui per chiedere una Sua preziosa collaborazione consci che l'argomento lo ha sempre appassionato. Beppe, prontamente, ci ha risposto inviandoci alcune riflessioni, come al solito estremamente stimolanti. Le riproduciamo certi che troveranno attenzione presso i nostri lettori per i sentimenti che, in quest'epoca di grigiore, sanno ancora suscitare.Grazie Beppe! Non siamo mai stati negrieriUna Comunità che si è costruita in quaranta anni di sofferenze è la più vicina a capire la sofferenza di chi, per fame, emigra. Gli Italiani, a strada della emigrazione per fame, la conoscono. È lastricata dalle loro lacrime miste a sangue.La "Fondazione Agnelli", dopo una ricerca durata sei anni, ha pubblicato tre volumi sulla e migrazione in America. Si tratta di una testimonianza terribile. La dedichiamo a coloro che, nella nostra famiglia politica, per agguantare qualche voto in più, si sono scoperti in questi giorni, dopo avere pochi attimi prima sentenziato sulla «sacralità della vita», paladini dell'anti-immigrazione. «L'Italia agli Italiani», hanno gridato. Dimenticando che la filosofia di quel grido gli Italiani dell'emigrazione selvaggia se la sentirono buttare in viso, contro di loro. Più di cento anni fa. E furono massacrati, fra sofferenze incredibili.È memoria storica, ed è un delitto dimenticarla. Nell'albero di famiglia degli Italiani quel "dolore" è incancellabile.* * *C'è sì una battaglia da fare, per gli Italiani, ma in Italia. Quella di restituire ai Meridionali la pari dignità con gli Italiani dell'altra Italia, quella di prima categoria, quella opulenta, resa ricca anche dalle inaudite sofferenze della emigrazione meridionale.Il MSI non può dimenticarlo. Pena la perdita totale della sua identità. L'identità si gioca su queste cose, non certo sul saluto romano e sugli alalà.Non siamo mai stati negrieri. In Africa, quando siamo entrati nell'Egitto di Sua Maestà Britannica, la democrazia in persona, abbiamo trovato una nazione sfruttata, affamata, ghettizzata. Ma avevamo lasciato dietro le nostre spalle il Gebel cirenaico, redento dai nostri coloni. Non negrieri, civilizzatori. Ed ora gli «interessati» mandino a memoria ciò che sotto è scritto. È storia italiana. Di dolore e di sangue.Beppe Niccolai"L'Eco della Versilia" - L'emigrazioneLa partenza da Genova«Nelle taverne a Genova ho speso 19,40 lire. Oltre tutto, con Domingo Fin era combinato il prezzo di 155 lire, esenti da tasse. Ma quando siamo andati a pagare, ne hanno chiesto 160: tutti ladri. Siamo arrivati due giorni prima, giusto per farci portar via ancora un po' di soldi, a Genova, se potessero, ci porterebbero via anche il cuore (...). Fate in modo di venir via da casa, arrivare a Genova e partire subito. Prendete quello che serve a Valdagno. Se vi è possibile, portate una bottiglia di rum, una di olio e delle cipolle ...». (Paolo Rossato, lettera ai suoi)Sulla naveFinalmente, con mille difficoltà, privati dei pochi averi, ci si imbarcava e si partiva. Più che una nave passeggeri, il bastimento pareva una nave da carico, piena zeppa di persone «messe a bordo e ammucchiate come pecore destinate al mattatoio». Toniazzo, nel suo racconto di viaggio, crede atipica la situazione della nave su cui si imbarcò per venire in Brasile. Invece, era la regola. La sua nave, da Genova partì per Napoli e appena attraccò, «il personale si lanciò a caricare altri 600 napoletani (...) con destinazione Rio de Janeiro e Buenos Aires. Come eravamo ammucchiati in quella nave, mio Dio, quando imbarcarono quasi altrettanti passeggeri! In quella benedetta nave eravamo più di 1.500 persone in terza classe, schiacciati come sardine in scatola». [...] «I casi di morte erano frequenti. Sul "Parà" si diffuse un'epidemia che uccise 34 persone. La nave "Matteo Bruzzo" vagò per tre mesi, affondando cadaveri. Il naufragio della nave "Sirio", con tutto il suo carico umano, non fu dimenticato nelle colonie italiane del Rio Grande do Sul. "Sirio, Sirio, la misera squadra; per moneta gente la misera fin", cantavano gli immigranti nelle ore di malinconia». * * *«Una volta, morirono tutti i bambini di un vapore con 1.800 coloni a bordo, perchè c'era stata un'epidemia di difterite».La fazendaFinalmente arrivavano alla fazenda. Assoggettati a un capo squadra, spesso schiavo o ex-schiavo, non vedevano quasi mai il padrone, che, talora, non abitava nemmeno nella fazenda. «L'interno della fazenda è un piccolo villaggio di reclusi»: una campana chiama al lavoro, che inizia all'alba e finisce la notte. In molti casi un «pasto che rivolta lo stomaco più robusto» viene portato per tutti. L'italiano riceve un tanto per piede di caffè coltivato e un tanto per il caffè raccolto, ma con questo deve pagare tutti gli acquisti fatti nell'unico magazzino locale, appartenente al padrone. Alla fine dell'anno, per quanto si sia fatta economia e si sia lavorato, è ben poco quello che si riesce ad accumulare.Il mercato degli schiaviI fazendeiros paulisti, nello stesso modo e con la stessa mentalità con cui negli anni precedenti si erano rivolti al mercato degli schiavi, adesso si rivolgono alla Casa dell'emigrazione per trovare manodopera per le loro piantagioni. J. Gelain descrisse lo spettacolo: «Facevano proposte stupende, affermando che i fazendeiros erano buoni e coscienziosi. Molti italiani credevano alle bugie degli interpreti e partivano per l'interno. Senza mezzi, facendo la fame e vivendo in miseria, molte coppie vendevano i loro pochi averi per non soccombere. Non trovavano neppure case in cui vivere». Dopo l'ingaggio, gli immigranti partivano alla volta delle fazendas. Inizialmente viaggiavano in treno, nelle condizioni più sfavorevoli, spesso stando in piedi per tutto il viaggio. L'ultimo tratto, poi, anche cinquanta, settanta e più chilometri, veniva fatto a dorso di asini da alcuni, a piedi da altri, sotto le intemperie, dormendo all'aperto.Farina marciaDeboli, con poche cure igieniche, senza assistenza medica -la maggior parte dei dottori erano ciarlatani- male alimentati, morivano. Uno di loro racconta: «Ricordo che al dazio distribuivano farina marcia agli immigranti. Fortuna volle, però, che avessimo una buona stagione di pinoli, perchè diversamente avremmo patito veramente la fame» (Maestri, 1939). J. Gelain riferisce che un suo zio, che aveva febbre e mal di testa, impazzì e gridava disperatamente. La madre ebbe un bimbo e, «in conseguenza del parto, si ammalò gravemente. Il padre cercò il medico, un certo Napolitano. Questi sbagliò prescrizione. E la povera madre, fra vomiti e gemiti, morì 24 ore dopo. Il giorno stesso, morì anche il neonato, di nome Gaetano. Furono chiusi nella stessa bara».Lardo pieno di vermiA. Broetto, narrando le peripezie del colono a Santa Teresa, Espirito Santo, commenta che, quando qualcuno si ammalava, veniva portato a spalle a un ospedale, a 13 km di distanza, «attraverso sentieri dove in Italia non passano nemmeno le capre». «Il cibo che ci davano era carne di bue salata, chiamata carne secca, ma era andata a male e puzzava talmente da far venire la nausea, farina di mais deteriorata, farina di frumento di qualità infima, farina di manioca (chiamata farinha-de-pau) cruda, acida, baccalà che puzzava a un chilometro di distanza, lardo pieno di vermi e altri alimenti di questa qualità».Dio non volle che io morissiNella sua semplicità e nel suo dolore, forse nessuna storia di quei tempi può essere paragonata a quella raccontata da J. Gelain, in parte già riportata nelle pagine precedenti. Orfano di madre, abitava nel Travessao da Barra, vicino al fiume Antas, con il padre e lo zio; non avevano denaro, non avevano una casa propria e il raccolto era in ritardo. La zia e un'amica, nella cui casa vivevano, andavano a chiedere l'elemosina nei dintorni, in casa di coloni poveri come loro.«Il giorno in cui si mangiava meglio, il pasto era composto da polenta con zucchero o pezzettini di zucchero grezzo». Sapendo che il governo offriva lavoro sulla strada per Paese Novo, dopo Antonio Prado, andò con lo zio e alcuni suoi amici. Non avevano i soldi, però, nemmeno per pagare la zattera e così dovettero passare la notte nel bosco, al freddo e senza cibo. Il giorno dopo il proprietario della zattera, mosso a pietà, li portò dall'altra parte del fiume Antas, dove un colono diede loro della canna da zucchero per placare la fame. A mezzogiorno, finalmente, riuscirono a mettere nello stomaco polenta senza sale. Dopo 15 giorni di lavoro in strada, tornarono, pagando persino il proprietario della zattera. Qualche tempo dopo, sempre in cerca di lavoro, J. Gelain lavorò con tre compagni alla costruzione della ferrovia Sào Leopoldo-Taquara, dove rimase cinque mesi. Al ritorno, in pieno inverno, fu trascinato dalla corrente mentre attraversava il fiume Santa Cruz. Fradicio, chiese asilo in casa di una famiglia, che glielo rifiutò. «Passammo la notte in un porcile. Andammo a chiedere dell'acqua calda per dare sollievo allo stomaco. I cani addentrarono le nostre borse con gli effetti personali, le aprirono e ci strapparono tutto il caffè, mentre lo zucchero si era già liquefatto durante l'attraversamento del fiume. Era una notte di freddo intenso e noi ci trovavamo con gli abiti bagnati e senza cibo. All'alba del giorno successivo ci fu una grande gelata. Verso le due del mattino, sentii che le forze mi mancavano e terrorizzato dissi al mio compagno, Antonio Caon: «Antonio, quando arriverai a casa, racconta della tragedia che ci è capitata e soprattutto di' a mio padre che sono morto di fame e di freddo ..." (...) Il mio compagno soffiò per due ore per darmi un po' di calore. E Dio non volle che io morissi».Vengono a popolare i cimiteri2.300 persone. Vedendo il numero di morti e di disperati un giornale scrisse: «Ci chiediamo solo se il Brasile chiami gli immigranti per popolare la terra o i cimiteri».Meglio in un porcile ma in ItaliaSui coloni di Morretes, nel Paranà, il deputato Antonibon lesse alcune relazioni al Parlamento italiano del 1880. «Mi trovo qui in croce, pieno di fame, di sete e tradito. Di cento, ci riducemmo a quaranta. Chi perse il marito, chi la moglie, chi i figli. Si dice da queste parti che alcuni del Tirolo si siano mangiati un figlio (...)». «Siamo come animali: senza prete, senza medico. Non si dà neppure sepoltura ai morti: siamo peggio di cani incatenati. Di' al padrone che io sarei più felice nel suo porcile in Italia che in un palazzo in America».