Incursioni

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VocaliL'aspetto era quello di navi gotichebacelli di fronzuta, argentea radicascivolavano tra intarsi e rientranzelavorate con largo gusto da maestrisquattrinati. Io aspettavo la Tormentamentre il padrone di casa si ostinavaa sciorinarmi dei tesori che per meavevano ormai lo stesso valore di unocchio allenato, e di un silenzio contrito.Lei era uscita a marzo senza più tornarese non per le anticamere della percezionequando mi rapprendevo a un sonno antico,pascolavo confuso, posso dire, le mie greggie tutt'intorno si faceva quiete innaturaleprima dell'esplosione di una rabbia primeva,gli asfalti celesti erano disegnati da vene inrilievo sotto la compatta e fitta trama di nuvolenere e sparuti fulmini. Sedevo, ricordo, su unasedia di paglia mentre si radunava tutto la servitù per vedermi maledire l'imminenza dei rovesci; ma nulla era più lontano dalla mia volontà, mi limitavo a contemplare le distesedi temporali a miriade e microconcentrazionesenza alzare il pugno contro il mio destino.Le grandi piogge mi tallonavano e la Storia si raggomitolava come un cane davanti alla sua cuccia. Mi alzavo, talvolta, e pestavo il locale avvicinandomi alla notte quasi fosse uncatino rovesciato mentre tardavano i sommovimenti.                                      Poi, arrivata la scorsa Estate, mi sorpresi a farecose intessute all'arcolaio, situazioni come altresolo un pò più abbandonate per entrare nello spiritodella situazione-riscatto-pagamento della taglia. Erocon un sorriso che mi andava da un orecchio all'altro,pastorizzavo. Così come erano venuti le Tempestese n'erano andate e parecchia gente coglieva l'occasioneper restare un pò di più all'aperto per giocare a raminoe a riconoscere gli stracci che le Torri di Avvistamento,in lontananza, lasciavano penzolare. Fumavo poco, l'hashish per una stagione mi aveva dato alla testa eaveva collocato silenziosi moloch tra la mia comprensionee l'esposizione dei miei casi alla corte competente. Eroviola e giallo, allora li ricordavo i miei colori. Irene piangeva sopra grandi nappe intrecciate per la morte improvvisa delsuo cagnolino, e Io sospiravo e lavoravo: avevo una nuovaprofessione e dodicimila testimonianze di fede. Partivo almattino e tornavo di sera. I glicini si diffondevano sulla superficie mentre fischiettavo arie tirate fuori dal mio I-pod,sembrava di galleggiare e non ero, come magari potete pensare, per nulla contorto. Sopravvivevo bene al calo dizuccheri o anche a improvvise biopsie. Mi sbucciavo le ginocchia e rincorrevo i calabroni, visto e placato ramazzavole distanze con un colpo d'occhio chiaro, portavo mazzetti dimargherite all'ombra di un orecchio e mi mangiavo i diecichilometri di andata e ritorno. Sopravvivevo. Quando poi incuteva la rabida tenebra, stringevo intorno alle spalle lamia coperta e coprivo i fianchi con polvere di gesso per nonfare accedere gli spiriti mozzicati. Mi pare chiaro che La stavoaspettando.                                                Quando arrivò il giorno, affittai una grancassa di musicanti rubati dalle prove per Il Trovatore nella versione da Circo,spostai i granulomi dai miei lillà da giardino e versai mielenella gola di Clorinda, fingendomi un grande Ispirato. Rolfsi masticava i baffi, grandi e rossi, e mi mormorava ognimezzo minuto :"Ma quando arriva?". Aspettavamo dalle undici di quella mattina sulla banchina della stazioncinariverniciata di fresco e dalle forti inflessioni ardesia e oro.La notte la avevo trascorso a giocare pesante e a bere forte fianco al mio pappagallo dalla tinta ribalda: mi ero rovesciato su un baule e alla fine avevo tirato un tappetoa drappeggiarmi tutto il corpo. Era afoso e la banda dilagava sui binari, provando, di volta in volta, tutta una seriedi melodie sbagliate e informi e Io mi stavo già colando dicerone ed henné. Tutto ricordava gli otto anni precedentia Denver dove ogni cosa era partita con il piede sbagliatoe avevo messo su un business di chitarre solari in amplessibislunghi con la pretesa di ingannare i veri cultori ed esperti,ma era finita con il mio abbandono dell'attività e con la ripresa di una vita errabonda segnata dall'incuria e dalladisperazione. Avevo abitato, ricordai, per un periodo in vecchiefabbriche dismesse sull'orlo della febbre embrionale e dellaconsacrazione pestifera. Ma questo era finito...stavo dileggiandome stesso per gli sprazzi di incoscienza e e il furore spezzatoche mi mordeva la gola. Il trenino poi entrò a Castres con un'oradi ritardo per qualche problema alle caldaie verdi, d'improvvisocalò dalla volta celeste una compatta umidità e un sospettolucore smorzatissimo. Era giovedì, credo e la banda attaccò a suonare mentre mi lisciavo le penne e devastavo nell'ariacome peltro pregiato sotto le lacrime.