Quella sera, ubriaca di Dio, salì sul monte. E dal monte, levate le braccia al cielo, occhi negli occhi della folla incuriosita, pontificò, Jana.
Una squallida e diroccata scala di cemento, il monte. Un misero, sciatto, volgare nodulo di accidiosi e malvestiti esseri, la folla. Uno sgualcito, ammaccato cartone di vino bianco, il Dio. Insistente latrare di cane in lontananza. Stagliati sullo sfondo, un campanile disadorno e ripetuti accoppiamenti di felini ad inondare di fetore e miagolii l’asfalto caldo della notte.
Lei, un balzo della mano, un indice proteso verso il nulla e un barcollare, prima lieve, poi drammatico e pauroso. La slavina del suo corpo si abbatté con un fragore di lamiere e la sua sagoma svanì per qualche istante. Alcune pietre accompagnarono la scena, rotolando dolcemente sui gradini ed un batuffolo di calce nevicò dal balconcino eretto a pulpito.
«È morta!» – fu l’unanime segnale, bene intriso di morbosità e altruismo.
Un uomo con il ventre prominente ed una donna con parrucca a maglie larghe accennarono ad alzarsi, in previsione di un soccorso o solamente come gesto di presenza. Ma, improvviso, l’orgasmo di un orrendo gatto rosso forò l’aria e si mischiò a un lamento cavo, dignitoso e dal sapore di bestemmia. A quel lamento seguì un ciuffo di capelli scarmigliati; poi tre, quattro, cinque dita pallide, aggrappate alla ringhiera arrugginita; a questi, un volto stupefatto ed indignato. Poi due spalle di camicia lacerata, infine il tronco. Era nuovamente in piedi, come un Lazzaro o birillo a base sferica impiombata. Era Jana.
«Io non credo» – biascicò – «voi siate qua per ascoltare. Ma io parlo anche da morta questa sera!». E il suo discorso, tra sgomento, derisione e malcelata aspettativa, incominciò.
«Mi hanno ingannata, e fin da bimba. Hanno rovistato nel mio tempio, nel mio corpo, hanno rubato i miei dipinti, i miei arazzi, il mio mobilio, i miei cristalli. Hanno sostituito il tutto con scadenti oggetti uniformati: “ikea di personalità”. Si sono presi le mie trecce, le hanno tirate fino a romperne le fibre e farmi creder d’esser brutta in quanto uomo, d’esser nulla in quanto donna. Ecco la genesi, la causa dell’agnello!
L’onnipotente Dio nella sua onnipotenza creò l’universo. Poi si dovette riposare un giorno intero, il Dio onnipotente, cioè che tutto può compreso il non sentire mai stanchezza. Il Dio onnisciente soffiò sul fango e creò Adamo. Poi si accorse che questi si sentiva solo, il Dio onnisciente, cioè che sa ogni cosa, tranne che Adamo si sarebbe potuto sentire solo. Allora l’onnipotente Dio levò una costola all’uomo e plasmò Eva, il Dio onnipotente, cioè che tutto può tranne soffiare una seconda volta il fango.»
Dalla folla salì un grido miserabile e strozzato nel suo cappio di parole: «Fermatela! Non sentite cosa dice? È una donna, un’ubriaca che bestemmia!».
Lei, tranquilla, labbra sghembe ed uno sbuffo a riavviare il ciuffo nero, alzò la voce e proseguì:
«Si. Lo chiedo ancora: scarseggiava il flatus o era l’argilla? Non s’è mai vista tanta fiacca onnipotenza! Io sono nuda avanti a voi. Non ho foglie di fico, non provo alcuna vergogna della mia natura. Un animale che si vergogna della propria nudità risulta un essere aberrante. “Persona” dall’etrusco “phoersum”, ovvero maschera. Ecco, ne vedo molte in questa valle di bugiardi.»
Risuonò nell’aria un prolungato e tremolante stridere di denti, colpì un angolo di cielo, poi ricadde a capofitto nella carne dei presenti come brivido inconsulto.
«Il vostro Dio che mi strappò le trecce – riprese Jana – l’onnipotente, aveva un albero a lui caro. Oh, se era caro! E, onnisciente, appese ovunque il suo divieto di mangiarne i frutti, lui onnisciente, cioè che avrebbe dovuto sapere che i frutti li avremmo mangiati eccome. E disse che era l’albero del bene e del male, cioè della sapienza. Per tanto lui, buon padre, non voleva che i suoi figli ne mangiassero, in nome di paternità e libero arbitrio. Meglio avere figli ignari ed ubbidienti, questo è chiaro come il cielo a mezzodì! Se lasci a un figlio una qualsiasi via di fuga, puta caso la sapienza, come fai poi ad appurare che non perda la tua imago e somiglianza? Che non getti via il tuo seme?»
Il mondo accanto era un rimbalzo di sé stesso. Un’infinita eco, risonanza di riverberi interiori, tratteggiava solchi cupi: sulle cime pronte a neve, sui sorrisi di imbarazzo, dietro agli occhi di una donna. Ubriaca, forse atea. Era quella una donna? Ubriaca! Forse atea!
Silenzio. Una pausa. Un singulto.
«Ed il corpo?» – gridò l’ubriaca – «è il corpo il tempio dell’anima, come la chiesa lo è di Dio, o è il corpo la fonte di tutti i peccati più turpi? Se è fonte di tutti i peccati, rovina dell’anima, perché ne è così deprecato il commercio? E s’è tempio dell’anima, casa di Dio in miniatura, perché ne è così deprecata la cura? E ancora: se è vero che il sesso è un regalo di Dio, e che il sesso si fa con il corpo, ma che il corpo è inferiore allo spirito, serve incarnarsi? Non avremmo potuto esser fiato soltanto? Perché quest’argilla di natiche, seni, caviglie, carbonio su idrossiapatite? Questo sacco di carne di cui render conto, di tutto e a chiunque; quest’aspetto esteriore, che segna l’intera esistenza? Ipocriti, so che pensate, e lo dico una volta per sempre: a nessuno interessa del fiato, tutti vedono solo l’argilla! Se questa è scadente, hai un destino; se questa è gradevole, un altro. Per imposta decenza – soltanto per quello – evitate di aprire dei campi in cui chiudere chi non vi aggrada. Ma i ghetti ci sono! Siamo tutti creature di Dio, ripetete. Ma, scaltri, omettete di aggiungere ciò in cui davvero credete: c’è argilla ed argilla, e l’argilla scadente è un po’ meno creatura di Dio!»
Un guaito da dietro una siepe, un chiocciare di polli atterriti: in chissà quale orto, discese dai monti una volpe affamata. Una goccia di pioggia precipitò dentro a un vaso in cemento, produsse uno schiocco di ossa spezzate, si espanse; la terra si intrise, assetata. Martelletti di peltro su corde smorzate batterono l’aria: duecento, duemila, un milione di gocce a nettare il peccato di gola riarsa, a mondarne il catarro rappreso.
«Parlate di amore, cantate di amore.L’amore che sogna,l’amore che tutto risolve.
L’amore che regna sovrano, possiede le chiavi dei cuori, redime. Bugiardi. Voi state parlando di sesso! L’amore è ragione, prevede un contatto diretto con l’oggetto amato, prevede che lo si conosca: l’amore è sapere che cosa si ama, e riuscire ad amarlo comunque. L’amore è una scelta, un lavoro. Chi, in buona fede, per distorta educazione, crede che sia sufficiente il cuore è destinato al fallimento degli affetti. Chi, in buona fede, continua a diffondere questo credo, è un visionario. Chi lo fa in cattiva fede è un criminale. Ciò che voi chiamate cuore è l’estro delle gatte, il caos dell’universo.»
Lo schianto. Un boccale di birra si infranse, sputando saliva dolciastra ed ambrata che invase le crepe del suolo; vi scorse a singulti, spaccandosi a delta, sfociando sui sandali di un pellegrino, imbevendone il sughero e il cuoio. Nessuno si prese la briga di nettarne i piedi coi propri capelli. Nessuno li tinse di oli preziosi.
«Crea mostri, il vostro amore. Disagi a cui bisogna rimediare con menzogne, innumerevoli menzogne. Una tra tutte? L’autostima. Credete che su un’isola deserta potrei odiarmi? Credete che in assenza di un giudizio collettivo, nato proprio dalla vostra idea di amore, potrei odiarmi? I vostri appellativi: grassa, magra, bella, brutta, sana, pazza, triste, allegra... È il vostro metro di bellezza, distante secoli luce dall’amore, ad inventare l’autostima. Così che ogni delicatezza, ogni umano cedimento, si tramuti in una colpa; in una colpa ch’è, ovviamente, tua. È come navigare in rete: la pubblicità ti invade, penetra lo schermo, vomita pop-up, sovverte il disco fisso. Ti lamenti? Colpa tua, ché non hai il firewall; non del mondo criminale che ti assedia, spreme, affama. Solo tua, ché non hai il firewall. Solo tua, ché sei carente di autostima! Perché il concetto di l’autostima serve a chi programma gli anti-virus; l’autostima stessa è un virus, una creatura artificiale. La possiedi appena nato, per natura; poi ti viene sgretolata, smantellata, uccisa a colpi di cannone. Rasa al suolo, ti propongono la loro soluzione: l’autostima artificiale, omologata, a pagamento. Ché non puoi esser così debole ed esposto, così poco innamorato di te stesso! Come puoi prendere pugni finché vivi se mi crolli al primo schiaffo? Noi vogliamo dare i pugni, non ci dire ch’è immorale, noi vogliamo dare i pugni: colpa tua se non li sai incassare, i pugni che vogliamo dare!»
Un lampo illuminò volti indignati; il cielo fu squassato da un fragore, laboriosa digestione del Creato.
«La fiaba è vecchia quanto l’uomo: creazione del disagio; deduzione di un peccato; attribuzione della colpa; assoluzione previa redenzione. Tutto è buono, il cosmo è buono, Dio è bontà, tutto è perfetto in un sistema d’armonia silente e cheta. Poi, d’un tratto, arrivi tu, compari tu! Atomo ambizioso, cianci di diritti umani; vuoi un tuo ruolo, chiedi un posto, sogni una serenità. Ti dicono che sì, c’è spazio per chiunque, prego-vieni-ci-vogliamo-bene. Parla, dicci cosa pensi, ma non ti discostare troppo dal pensiero uniformato, che il segreto del successo sta nel mezzo, in medio veritas, si dice. Però ogni cosa ha un prezzo; paga il pegno della tua presenza: quella è il tuo peccato originale! Non ci importa più di tanto che tu sia una donna o un uomo: è la persona che temiamo. Quindi credici al peccato, ci sei dentro fino al collo! È evidente che hai problemi con il padre, con la madre, con le autorità ufficiali. È evidente che non sai farti apprezzare, ricercare, compensare, abbindolare. È evidente che hai problemi di autostima!»
Gracchiare di saracinesca, rimbombo di ferro, chiusura.
La notte non ama i viandanti perbene, la notte è sincera. Protegge ed accoglie soltanto i randagi, gli sbronzi, le scorie inquinanti, le schegge impazzite, i feriti sul campo. Gli illesi, coloro che godono di integrità, non si prestano a certi discorsi: hanno ancora le braccia, le gambe; hanno cara la guerra che chiamano vita, la vita che lordano amando, accettando, eternando la guerra.
Gracchiare di saracinesca, chiusura, silenzio. La sbronza è finita.
«Sono sola. Nessuno è più solo di me. La battaglia portata nel cuore del mondo è una grave imprudenza, un suicidio invocato a gran voce. Un’ebbrezza divina.»
La pioggia continua a scrosciare. Nel buio volteggiano penne screziate di sangue: la volpe ora è sazia. Valchirie si librano tetre, reclamano croci. L’olezzo di gatto e catrame si è fatto più greve. Un tallone sobbalza tra il tacco ed il suolo, là in fondo alla via, sorreggendo una folta peluria fluttuante di aquila, bove, leone ed umano, evangelico verbo di bimba. Lo spiazzo s’è fatto deserto. Il diluvio durò molto a lungo. Ed ancora non tende a scemare.
Y. Stratos ®
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