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L'abbandono
Post n°20 pubblicato il 29 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
Una signora dai capelli cotonati, tinti in biondo come grano a fine luglio, sosta immobile di fronte ad una porta in noce scuro. Una valigia rossa opaca, antica e vuota, sta al suo fianco. Lei è una madre. In una mano la maniglia dell’ entrata, ottone cesellato in oro puro, nell’altra la maniglia dell’uscita, carbone coagulato sopra ad osso di giaguaro. La madre da oltre un anno sta in pigiama. Ha occhi come uova ribollite, braccate da perpetui predatori immaginari. È spaventata. La vita, fuori dal suo scrigno, si dimena e si consuma e le paure si amplificano e stratificano in estenuanti ere di terrore e glaciazioni. Dentro tutto è disperato, come lacrima senz’acqua. Di fronte a lei un bambino. Indossa un abito di funi grezze, sottratte a un trapezista in una sera di novembre durante uno spettacolo di un circo itinerante. In mano tiene un ago con del filo di budello nella cruna. Lo sguardo segue l’ombra della madre proiettata sul soffitto e muove il capo in ampi semicerchi per illudersi di un qualche movimento che non c’è. Fuori nevica la sera. La coltre infarinata dei sentieri presenta lunghi graffi scuri, minuscole vallate interminabili scolpite dalle zampe di randagi e volpi scese a ricercare cibo. Le stelle sono basse. Così basse che scintillano dai piccoli rilievi in ghiaccio stesi ai bordi delle strade ed ogni tanto una di loro si conficca in un lampione e getta sfrigolii di luce sulla piazza a ricordare che è Natale. Nel cortile, lambite dagli schiaffi di una fiamma, due giovani eschimesi in un abbraccio primordiale riproducono, cantando, la banchisa. L’una tozza e infagottata nella renna, l’altra cerea come costa di balena, occhi negli occhi, guerreggiano in furente katajjak, sognando di sconfiggersi a vicenda. Accanto, un bimbo seminudo abbraccia un cucciolo di lupo e lo impiastriccia con dell’olio ricavato da una foca trucidata giorni avanti: servirà a lubrificare gli occhi della madre, così che possa piangere davvero e, finalmente, dissetare il figlio con dolore meno denso. Più in là, in un ripostiglio delle scope, accovacciato accanto a un foro irregolare ritagliato nel parquet, un padre pesca con la lenza ed un rocchetto. Le mani sono gonfie e screpolate, le dita troppo corte non controllano lo scorrere del cavo che da tempo, sotto l’acqua, è già marcito insieme all’esca. Occasionali blizzards confondono lo scopo dei suoi gesti, inamidandolo da sempre nello stesso ripetuto istante, in una sola desolata, speculare geografia. « Sole gentile, sole ritorna! » gracchia la voce della inuit tozza, imitando quella del vento « Fallo per l’orso, io sono l’orso! » risponde la inuit cerea, scimmiottando la risacca contro a un fiordo. A questo canto l’ombra della madre vibra. Per il tempo di un perdono, elastica e danzante, si dilata e si ritrae più volte e quasi pare che si sdoppi. Il bimbo dal vestito in funi grezze insegue con lo sguardo le due madri proiettate sul soffitto. Ritiene che una sola sia la vera, eppure non la riconosce, nonostante l’una danzi e l’altra resti immota come pietra. Ne ha paura. Chi è quell’entità danzante? Quello sbuffo di vapore nero e tremolante, troppo vivo, troppo intenso per carpirne il nucleo, la stabilità? Da quale delle due nascere ancora? Chi abbracciare? La paura spinge ad atti di sgomento che somigliano al coraggio. Questo il bimbo non lo può sapere ancora, ma s’arrampica ansimante sulla punta dei suoi piedi e tende un braccio ad acciuffar le sagome, tentando di accostarne i lembi a farli combaciare. « Sole gentile, sole ritorna! Fallo per l’orso, io sono l’orso! » incalzano le due eschimesi, occhi negli occhi. L’ombra danzante è sottomano ma, con scatto di moscone, sguscia via. Ha approfittato della strana melodia per trafugare l’olio destinato agli occhi della madre ed ora è inafferrabile come un delfino appena partorito. Il bimbo gratta il cielo con un’unghia e cade a terra, mentre l’ago gli trafigge il polso ed un ruscello di acqua, miele e sangue scorre lento per le scale e infine giunge nel cortile, inonda il lupo che lo lecca avidamente. D’un tratto alla memoria del bambino affiora il padre. Non ha anche lui una lenza? Non è forse un pescatore? Rialzatosi, si lascia rotolare per la scalinata in legno che conduce al ripostiglio e qui ritrova l’uomo chino, lo sguardo fisso al foro nel parquet. Solleva un avambraccio, gli mostra fiducioso la ferita in segno di sottomissione e attende una carezza per potersi pronunciare. La lenza, molto tesa, appare strattonata a intermittenza, come se la terra intera vi si fosse appesa e sussultasse di dolore. Potrebbe essere un salmone o uno storione, o solamente un desiderio di salmone o di storione. Ma il padre non si cura del pescato, osserva inerte il foro e non v’è nulla che lo possa separare da quel buco che ha colmato di speranze e aspettative. « Orso dei ghiacci, figlio del mare! Se vuoi cacciare con uomo, da uomo ti devi vestire! » prosegue inarrestabile e violento il canto Inuit. Vestirsi con che cosa? Attorno non v’è nulla: solo ghiaccio ed una scala che riporta dalla madre. Sopra ancora sta il soffitto ed oltre, forse, un cielo, ormai rigato di bestemmie tratteggiate da rosari lavorati in legno chiaro, costellati di pois che riproducono all’interno altri pois di stoffa ritagliata a croce in una notte di dicembre in cui un bambino cerca una carezza o un indumento per averla. Che indumento? E dove? Ora l’orso, sebbene non si veda, comincia a far paura. « Padre! » esclama il bimbo strattonando l’uomo per un braccio « Padre aiutami, ti prego! La madre ora ha due ombre ed io vorrei cucirle insieme. Ma sono troppo in alto, non ci arrivo. Padre, aiutami, mi vedi? Sono qui, mi vedi? » . Senza sollevare il capo, lentamente il pescatore addita il foro. « Sei tu figlio? » sillaba con voce roca di chi parla raramente o non ha parlato mai. « Lo vedi, figlio, questo foro? » prosegue più sicuro « Ebbene, un giorno tutto questo sarà tuo! ». « Padre, mi sono fatto male. L’ago mi ha punto ed esce sangue! » aggiunge il bimbo protendendo il polso insanguinato. Le inuit hanno iniziato ad imitare il verso del delfino. L’uomo rimane lungamente assorto in un silenzio a tratti invaso dagli schiocchi cadenzati. Infine, monocorde e stanco, aggiunge « Lo vedi, figlio, questo foro? Ebbene, un giorno sarà tuo! ». Fuori, il raggio di una luna del color di panna sporca, fotocopia di se stessa, si fa strada nella notte brancolando attorno ai cumuli di neve. La piazza si rischiara: nel centro v’è un abete inghirlandato di minuscoli nastrini colorati, appesi ai rami come anelli al dito o cuccioli di cane alla mammella. Rintocca una campana, pare sughero compatto, picchiettato contro nubi di bambagia modellata su di un’anima di stagno: flessibile, ondulante. Antecedente il tempo, i luoghi e la ragione, un corpo gigantesco con la coda di rugiada sfavillante fora il cielo, celeste di cometa incede, ma nessuno nella casa ne ha sentore. Il bimbo dalle vesti in funi grezze osserva sconsolato il padre e si ritrae in un pianto interno, ottuso e greve come stilla di caverna. Nessun vestito lo può fare uomo, nessuna madre infonderà l’amore. S’accascia sul parquet gelato, occhi nascosti dietro a mani piccole ed asfittiche. Come una vecchia inuit, si allontana dal villaggio e attende l’orso a porre fine all’esistenza: le zanne, lo sciabordio del ghiaccio, il vento tra i capelli. Il nulla. «Orso dei ghiacci, amico fraterno » singhiozzano le due eschimesi « quanto è lontana la luce?». « Guardami! » irrompe una voce arrochita « Voltati, cucciolo bianco di uomo! ». «Non voglio vederti! » risponde il bambino « Divorami e basta! Fai presto, non voglio vederti!». « Voltati! » insiste la voce. Lo sforzo muscolare è sorprendente: le vertebre sono ruote dentellate arrugginite. Si odono ingranaggi risuonare e ad ogni scatto gli occhi si aprono di un poco. « Su, guardami! ». A un metro dal terreno, fluttuante, incastonata in un’aurora boreale in miniatura, soffusa come il dormiveglia sta una foca di indicibile bellezza. Intrecci d’alghe rosse e cinerine ne rivestono la nuca e si riversano in torrenti lungo il corpo, a terminare in una coda d’oro e argento che riverbera di antica ninna-nanna. Negl’occhi, dolci e cupi come perle nel kajal, respira il mare: sublimi e lacrimosi cavalloni s’inseguono schiumando e la risacca avviene in battito di ciglia, ad ogni istante rinnovata. Sul petto pulsa una spirale di cangianti, colorate acrobazie, galassia dentro a cuore di galassia, eterno labirinto senza uscita in cui trovarsi oppure perdersi è medesima, incredibile magia. « Chi sei? » domanda il bimbo sussultando. « Io sono Sedna » risponde la creatura in un sorriso che tintinna tutt’attorno « Sono Sedna e tu sei un cucciolo del mare. Non temermi, so che cosa vuoi. » « Io non ti temo. » « Siedimi sulla coda e tienti forte. Stringi l’ago tra le dita ed assicurati vi sia abbastanza filo. Fa in fretta, da troppo attendi. Forza! ». Il bimbo si rannicchia in una pinna e l’altra si richiude dolcemente a farne uovo in nido, seme nel terreno. Solo il braccio, la cui mano stringe l’ago, resta fuori, pencolante in aria. Si leva forte un suono, un potentissimo fruscio come d’autunno in mezzo a un bosco e ha inizio l’ascensione. Il padre s’allontana, si fa piccolo, distante: ora è una pesca, ora una noce, ora di riso un chicco, ora è scomparso. L’intero mondo ruota. Prima lento, poi veloce, infine è un gorgo di bagliori, cilindro di vertigini e pareti accelerate attorno a un perno di stupore, forsennato otto-volante. E sale e sale. E a un tratto il perno sfreccia accanto alle due ombre della madre e l’ago nella mano del bambino vi si impiglia, le perfora, le rapisce come fiocina col pesce e le trascina in una corsa verso il cielo, combacianti, sovrapposte e unite. Nel mentre, il corpo gigantesco con la coda di rugiada, celeste di cometa, discende sopra il tetto della casa e geme luce come a giorno. Si accendono fiammelle, nelle strade accorrono ritagli di celata umanità: pastori, pescatori, intabarrati manigoldi si mischiano a belati fragorosi, la folla, risvegliata goccia a goccia dalla luce, ora è l’ oceano. E sale e sale. E nel frattempo la cometa scende e scende. E il gorgo sale e sale e sale...si soffoca di nausea, di dolore, di velocità, di freddo, di paura, amore, solitudine, abbandono, eternità... Lo schianto! Il turbine si cheta. Dolcemente prende a roteare, a beccheggiare come culla d’aria affaticata. La cometa si disgrega in fiocchi evanescenti, morbida lanugine di tempo che ricade lenta al suolo. Ogni lapillo, come acaro di scabbia, scava grotte nella neve. Cunicoli di estrema precisione, aeree cavità frutto di incontro tra acqua e fuoco emanano vapore. Lassù, tra un angolo di stella e la convessità di luna, compare una figura antropomorfa, rannicchiata come feto, rivestita di lucente bava densa. Una gomena la trattiene per la vita al tetto della casa ed essa levita leggera, anela al cielo come mongolfiera voluttuosa di spezzare quell’ormeggio. Il cavo prende a sfilacciarsi. Gli occhi degli astanti ne riflettono ogni minima tensione, il fiato è fermo, trattenuto in un sublime istante di pre-morte. Poi lo schiocco, la frattura. Il feto rannicchiato prende il volo. Apoteosi di possente desiderio, si allontana, si fa piccolo, distante: ora è una pesca, ora una noce, ora di riso un chicco. Ora un puntino luminoso, molecola di sabbia nella melma dello stagno universale. Poi silenzio. La strada resta spoglia: la gente torna là di dove era venuta ed anche l’ultimo portone si richiude, dando al mondo la parvenza di una piazza fiocamente illuminata a ricordare che è Natale. «Orso bellino, bell’orsettino » canta sommessa un’infermiera dai capelli tinti in biondo come grano a fine luglio, cullando un bimbo tra le braccia. « Bimbo carino » fa eco un’ ostetrica, mentre getta in un bidone dei guantini di caucciù. « Portate via il bambino » ordina un uomo con divisa verde e il viso ascoso da una mascherina. La sua voce è stanca, antica. « Cristo, sembrava non volesse proprio nascere! ». « Ma questo è un vero ometto, forte e bello! » canticchia l’infermiera uscendo dalla sala nell’istante in cui la lampada scialitica si spegne e torna, lieve, il buio. Y. Stratos ® |
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