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Il potere
Post n°35 pubblicato il 18 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
Fu un ragazzino, uno schifoso ragazzino: « L’ ho vista all’alba che baciava Desio mentre questi amava Priapo! ». Pudico, schifoso, bugiardo ragazzino! « Fla, memento romana civis esse! » – . Udii la voce di mia madre provenire da una botte marcescente. No, dai fori delle tarme in quella botte! O dalle assi sgretolate? « Fla, romana civis, ma valevano i suoi baci questa morte? » Dal cuore salì il mare e inondò gli occhi, come il Tevere in aprile. Travolti e poi spezzati gli argini, il sale giunse in gola e ne gustai il sapore caldo, come naufrago che cessa di nuotare e s’abbandona. Così, là in fondo vidi anemoni saettare in danze nobili col polpo e, da sott’acqua, sfiorai il cielo con le labbra, il braccio teso come un Icaro in decollo grazie a piume intinte in cera di speranza. D’un tratto s’arrestò quel volo: mi ritrovai sospesa, penzoloni a frecce acute di un tridente colossale e le sei trecce con i nastri in lana rossa che foravano il mio velo si sfiancarono e, cadendo dalla luna al suolo, sfracellandomi mi risvegliai. D’intorno solo mura di stanzino ed una botte fracassata, mia dimora e sepoltura, qua nel Campus Sceleratum. Ricordai allora, con orgoglio ed amarezza, d’essere Flavia Mamilia, sacerdotessa di Vesta in quei di Roma, la cui Captio avvenne nell’anno dei consoli Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto IV e Marco Aurelio Severo Alessandro Cesare, esperta raccoglitrice di farro e preparatrice di mola salsa, di famiglia immacolata, vissuta illibata, condannata a sepoltura in vita per incesto nell’anno dei consoli Tiberio Pollenio Armenio Peregrino e Fulvio Emiliano, cioè ora. Cioè adesso e qua. Fu un ragazzino a dirlo, uno schifoso ragazzino: « L’ ho vista all’alba che baciava Desio mentre questi amava Priapo! ». Pudico, schifoso, bugiardo ragazzino! Ragazzina – io – la fui con classe e con coraggio! « Verum est » – stride la botte con la voce compiaciuta di mia madre. Ancora bimba, tra un divieto ed un silenzio già sapevo quanta poca parte avesse Priapo in ciò ch’è il sesso degli umani. Mamma Flavia trascorse la mia intera fanciullezza a battermi e a baciarmi ripetutamente, alternativamente, inaspettatamente. Mi partorì a fatica. Questo mi costò, durante la mia prima decade di vita, l’obbligo di pulizia della sua mensa in vece degli schiavi. Mia sorella, Flavia Licia – avevo quattro anni – ricordo fu deposta nuda accanto ad una frigidaria e dopo due mattine la ritrovammo esanime e gelata come pesce del Mar Nero, piccolo sgombro pallido, accartocciato in un’ attesa di ramazza. Seppi avanti che un suo arto era più corto e fui felice, infine, di non possederla nei miei affetti. Accanto a casa v’era una fontana arrampicata su di un colle in terra dura. Una pendenza angusta si allargava finalmente in povera piazzetta e là s’apriva la rivendita di Asilio, un goffo Cimbro con la voce di vulcano: giocavo, gettavo un sasso a terra e lo saltavo e lo scalciavo per condurlo alla mia idea di vita disegnata con dei solchi nel terreno e, tra lo scroscio e il calcio, la sua grassa voce: «Veg-ni! Veg-ni ! » sovrastava i miei ginocchi col suo accento forestiero. « Veg-ni! » - lesto, poi correva a carezzare ali di pollo e porci appesi, decorati da stupende piume azzurre di pavone, appiccicate con il sangue alla sua merce di liberto tatuato. Giunse un giorno una lettiga preceduta da colori, suoni e genti. Un bordo in legno cesellato mi sfiorò l’addome nudo ed abbronzato e fui rapita da un profumo di verbena e menta forte, vorticoso mulinello come vento di grecale e di settembre. Foglia inerme, mi avvinghiò la scia che fui sul punto di fuggire, quando mamma mi trattenne. « Qui est ella? » – miagolai incantata. « Ella pulchra dea Maximae Pulcherrimae Deae est – Vestalis! ». « Quella è la bella piccola dea, figlia della bellissima grande Dea: una Vestale! » - mi rispose. Allora, e solo allora, io mi percepii di carne, miele e fiato, ed ebbi la certezza d’esser destinata a quella bella, anche se piccola, deità. Fui scelta – solo sei di noi su venti – alle idi di Marzo e tra le none e le idi di Maggio raccolsi il primo farro e, a giorni alterni, lo tostammo. Terentia aveva deboli ginocchia; insieme a Campia, raccoglievo la sua parte e mi ubriacavo di fragranze in quella dolce, sorridente primavera mia di vita. Recisemi le chiome di bambina, in segno di rinuncia e sacrificio, mi apposero – posticce e in numero di sei – treccine di capelli veri, tolti a donne della Dacia, e le adornarono di nastri in lana rossa, con infula al profumo di garofano ed incenso. Ebbi un giaciglio: delle sei, l’ultima stanza sulla destra, riservata alle novizie. Modesta, angusta e sobria ma spaziosa a sufficienza per tenervi tutti i sogni della notte. Mi tolsero alla Patria Potestà, mi dissero: « Puoi fare testamento, puoi amministrare i beni, tuoi ed altrui, puoi muoverti in lettiga con la scorta d’un littore, puoi rendere testimonianza nelle cause, puoi concedere la grazia ai condannati, puoi lasciarci dopo trenta anni e un giorno e maritarti, avere prole ». Di tutto ciò, nella mia mente di fanciulla, si scolpì soltanto il verbo: « Puoi! ». Come festoso sibilo di cento sistri, come ondeggiante carezza di cento tibie in processione, riecheggiò per mesi e mosse l’aria tra la tunica e la pelle a darmi brividi profondi: convinzioni! Che saranno mai trent’anni d’astinenza di fronte a questa piccola bellezza, a questa piccola deità? Di fronte a cento sistri e cento tibie quotidiani che ripetono gioiosi: « Puoi! Puoi! Puoi ! ». Poi dieci inverni, undici estati... smarrii il conto dei favori e mi adagiai perfettamente in quella bolla di sapone. Quante volte veleggiò la mia lettiga, come nave preceduta dal littore tra quei vicoli contorti e quelle teste scarmigliate e sporche, mare umano che seccava al mio passaggio? Quante volte misi legna, colsi farro, lo impastai? Quante le ore in veglia ad osservare oltre la tenda il buio, a percepire il sussurrare in fondo al peristilio e ad aspettare l’alba per poter sortire ancora, veleggiare, avvicinarmi al cielo? Lo vidi, è vero che lo vidi! Desio fu uomo alto, capelli neri, labbra che parevano sincere in quell’accento di provincia: dalla Siria? Dalla Tracia? Aveva pelle del colore della seta riarsa al sole, il passo stanco di un airone che ha già avuto troppi cibi prelibati ed ora ha perso l’appetito. Un solco chiaro accanto al labbro superiore, una ferita ormai inglobata nel suo volto: un incidente il suo? Lo fu per me. Da allora, l’essere una bella e piccola dea non bastò più. Mi venne a noia il fuoco, a nausea il farro e mi tediò la deferenza, il servilismo della massa umana. Comparvero le febbri nella notte. Terentia mi portò del vino e miele riscaldato. Delirai: « Non posso! Posso tutto ma non posso! Io non posso! ». E feci un nome: Desio! Né Campia né Terentia né Cecilia fecero domande: già vi erano passate, come me, da donne. Il Pontifex non seppe. Finì il periodo delle febbri e cominciò la rabbia ed ora i sistri erano corvi fastidiosi e il fischio delle tibie era una lama nella carne: « Non potes! – Tu non puoi! » - mi ripeteva come satiro ghignante il vento. Fu allora che Lucillo, il figlio di Selene, la greca che da bimba mi allattava, venne colto a borseggiare nelle terme di Traiano. La sentenza fu severa e fu di morte. Graziarlo? Io lo tenni in grembo bimbo, estremamente puzzolente bimbo, gli occhi chiusi come cucciolo di gatto, mi pesava sulle braccia come artiglio che s’aggrappa e il movimento lo inviluppa in labirinto nelle carni a dilaniarle. Bimba – io – la fui con tatto e discrezione di profumi! Erano tempi, quelli – i miei! – che l’essere lambiti da lettiga ti poteva fare dea... La sera ho Campia che mi tinge d’olio i piedi e li massaggia con preghiere, rulli in cedro e solitarie confessioni. Siede sommessa mentre sono coricata, ed è uno stare ritti quando il mondo curva il dorso e ti si inchina. Chi è Lucillo? Che rubò? L’anfratto del silenzio è nicchia di sottili desideri: rifugio ritenuto saggio dai vigliacchi d’ogni tempo. Io mi ci incamminai perplessa e, infine, vi trovai la muffa adatta per cibarmi della vita stando accanto ad ogni flusso, come rana fintamente ignara a contemplar lo stagno. Stagno dopo stagno, l’ignavia si conquista e si gradisce come farmaco sincero. E la gradii, la morte di Lucillo, consacrazione di un potere cui anelavo. Sebbene ritornassero le febbri. L’anno in cui io nacqui fu l’anno della morte di Eliogabalo. Fu questi un insicuro personaggio dalle labbra imporporate e dalle vesti irrispettose sotto ad unghie lunghe e pinte – aveva a cuore il Sole e una sorella con cui divideva il talamo imperiale – portava carovane di cammelli. Le gambe accavallate, si tingeva il viso in specchi trattenuti da miscugli di colori mal fottuti: schiavi butterati, orrendi. Portava acconciature a noi vietate, sorrette da scarpine in seta azzurra, gambe magre, ventre pregno di pernici e, del Salento, intere ed opulenti, calpestate, fermentate e mai smaltite vigne. Mia madre raccontò ch’egli fu donna e donna libera. Che Roma non capì la novità, ché l’aria cupa della capitale causa spesso dei malanni. Mio padre, uomo antico, inveì contro i costumi e riesumò Catone ( d’altronde nei Lemuria si levava a mezzanotte e, scalzo sulla soglia, si nettava per tre volte in acqua fresca assaporando fave nere per scacciare lo spauracchio dei defunti ). Io, sensibile bambina, rifeci, per tre notti, la pipì nel letto ed il mio corpo si riempì di chiazze rosse. Avrei desiderato nascere anzitempo per condividere con quell’imperatore la mia fragilità di donna edificata su false premesse. False eccome, poiché di fragile non v’era che l’idea di una fragilità che, in fondo, non mi apparteneva (che dire, Roma è questa: grande vanto della libertà di donna, emancipate più di quelle greche; in verità trattate come serve). Colui che mi condanna a questa morte – Gordiano, il nuovo imperatore – ha tredici anni, ovvero è un ragazzino, uno schifoso, sprovveduto, perbenista ragazzino. Il popolo lo acclama (suburra!), il senato ne fa esempio di moralità e giustizia (clientes prezzolati), le matrone lo contemplano sognanti (sta a vedere che avverrà l’apoteosi), ma io so che non c’è nulla di divino in chi decide cosa è puro e cosa no quando si tratta di coscienza altrui. Io non ho amato Desio ed ancor meno il bimbo che mi porto in grembo. Sapevo bene a cosa andavo incontro assecondando quella ch’è la mia natura, tutti lo sapevano e tacevano, come se fosse una virtù sopprimere ogni istinto in nome di una religione. Ma non importa, ho avuto tutto e, in fondo, ho vinto. Il giorno della sepoltura in quest’ergastolo di pietra, Terentia mi donò un flabello d’osso. Lo scheggerò, ne farò lama e l’userò per carezzarmi i polsi. Pazienza per i Campi Elisi, non vi ho mai creduto. Forse nemmeno in Vesta. L’ipocrisia, questa mia ipocrisia di bimba un po’ cresciuta, non è che un velo trasparente: tutti se ne fanno peplo, ognuno vede quello altrui, ma buona norma è di tacerlo, perpetuando all’infinito la bugia della sottomissione. È un grido il mio, di rabbia mai sopita, di cinghiale con il fianco lacerato, ma compatto nella sua carnalità. Io voglio – perché posso, io lo posso! – penetrare fino all’osso ed intaccarlo, così che il giorno in cui ritroveranno i resti mi si possa riconoscere per quello che sono stata, una potente, dignitosa, intelligente proprietaria di se stessa.
Y. Stratos ®
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