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Il consorzio sociale
Post n°39 pubblicato il 26 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
Ad uno ad uno si disfecero i gomitoli di luce e tornò il buio. Fine. Facciamo un passo indietro. La stesura del copione richiese ben sei giorni, il settimo lo si distribuì alla massa sterminata degli attori: duecentoventritre protagonisti, seimiliardisettecentotrentadue comparse, intercambiabili a seconda delle contingenze. L’idea dello sceneggiatore ricalcava i più elevati canoni del « Cinemutopia », corrente capeggiata da registi e letterati i cui cognomi erano l’astro del momento, il non plus ultra della neo-cultur-letteratura. « La vita è arte » si affermava « per tanto, l’arte deve ricrear la vita. » Si narra che l’autore avesse concepito questa rappresentazione ritornando a casa sbronzo in una notte di black-out. Ma sono dicerie per screditarne il genio. La prima era prevista per il quindici febbraio, ovvero ieri. E ieri fu. Si spensero le luci ad un ad una ed allorché anche l’ultima si reincarnò nel buio, lo spettacolo ebbe inizio. Dapprima nulla accadde, solo fischi di ritorno in casse acustiche, rimbombi d’unghie picchiettate inavvertitamente sul microfono. Infine giunse il trepidato annuncio in calda voce di suadente femminilità: « Signore, Signori » qui il pubblico levò un applauso greve e prolungato, cateratta di impazienza e desiderio accumulati nell’attesa « è con modesto ma sentito orgoglio che il Teatro Bolso vi presenta lo spettacolo più lungo della storia! ». L’applauso si gonfiò, lasciando a malapena percepire le ultime parole: « Vi auguriamo sessant’anni di gradevole visione! ». Chetato che si fu l’ultimo palmo, la sala sprofondò nel più sofferto dei silenzi: apnea pericolosa, denso gel di citoplasma condensato. Occhio di bue celeste perforò la scena. Un essere deforme, comunione di animale ed embrione, si produsse in contorsioni strabilianti. Gli arti tozzi, troppo tozzi: « È un nano! » fu l’unanime pensiero giù in platea. Dal busto concavo, sproporzionatamente angusto, emersero altre gambe: telescopiche escrescenze, nodosi, spogli rami, puntarono al sipario e lo ridussero in brandelli ed un artiglio fuoriuscito dalla schiena penetrò nel legno del soppalco in uno schianto furibondo. Si accesero le luci e fu il principio. Una distesa interminabile di corpi vagolava per l’assito, mescolio di lingue disparate in abissali, variopinte anatomie. Una bambina con in grembo un barboncino stava scalza in primo piano. Alle sue spalle un uomo obeso dalle guance deturpate risaliva sei gradini di una scala verso il nulla, al settimo inciampava e rotolava, si rialzava, sei gradini verso il nulla e rotolava ancora a terra. Ad est formicolava una masnada di guerrieri in terracotta, in apparenza inerti ma con ombre brulicanti. A nord s’intravedevano, stagliate contro a fiordi, prue di barche governate da divinità cornute, carni lattee, chiome d’oro a mo’ di remi. Ad ovest risuonava una leggera canzonetta mentre smilzi spilungoni con il naso pronunciato contrattavano le merci a suon di botte e imprecazioni. Nel mezzo della lite, imbracato e sollevato a cinque metri dal terreno, icona di resurrezione, un prete veleggiava a destra e a manca navigando sui marosi delle anime in platea, composte, assorte, imbullonate ai seggiolini in una smorfia tra appetito e sazietà. Ad ogni oscillazione predicava ad alta voce: « Figlioli miei, non fate...» ma l’oggetto del divieto si perdeva nel silenzio poiché i tempi della fluttuazione erano stati calcolati con notevole difetto, grande pecca di coreografia. Tra il pendolo e la lite, sette folli camuffati con pellicce di visone che vibravano alle note di una tromba, sistemati in semicerchio, si esibivano in maldestre capriole. In quell’anfiteatro di pazzia, due statici gemelli dello Siam, legati a doppio filo per il tronco, recitavano copioni contrastanti: l’uno, basso coi mustacchi, sosteneva che la Terra fosse al centro dell’arena; l’altro, alto e ben rasato, sosteneva che l’arena fosse al centro della Terra. « Se l’arena fosse al centro della Terra » borbottava l’uomo basso « non vedremmo mai le stelle. » « Sei in errore » ribatteva l’uomo alto « è dal centro dell’arena che si vedono le stelle, non dal centro della Terra! Se la Terra fosse al centro dell’arena non vedremmo che la Terra. » « Ti confondi! » si scaldava l’uomo basso « Se l’arena è posta al centro della Terra e tu sei al centro dell’arena, come puoi veder le stelle? » « Sei un somaro! » s’infuriava l’uomo alto « Se l’arena fosse al centro della Terra non vedremmo che le stelle e mai l’arena. Se la Terra fosse al centro dell’arena non vedresti che l’arena circondata dalla Terra! » I sette mentecatti a semicerchio si eccitavano alle grida dei gemelli, parteggiando ora per l’uno ora per l’altro, sostenendone i rimpalli con fugaci battimani. Settanta metri ad est, tre donne con un velo attorno al capo lapidavano una vergine accosciata. Le pietre in cartapesta imporporavano le carni, dipingendo velature di tramonto, screziato dalle nubi di una sclera ingigantita, denso albume di terrore. Lo sfondo – pannelli scenografici di sabbia pitturata – era percorso da un convoglio umanitario: carovana di automezzi semi-carichi di cibo e medicine si muoveva come serpe sulle dune, indifferente alla tragedia. Al seguito, uno sciame di bandiere iridescenti si agitava, sospinto dall’aereo mulinello di un motteggio proferito con violenza: « Pace! Pace! » ed era un sordido anatema mascherato da preghiera (ma i più credettero trattarsi di un sapiente gioco d’acqua, luci e specchi per confondere le idee all’osservatore). Da mesi un’ambulanza percorreva ininterrottamente il palco, aprendosi dei varchi con sirena dispiegata a ripartire quell’umana geografia. Gli autisti, figuranti reclutati in un go-kart di Tblisi, avevano deciso, genialmente, di ripetere la parte senza sosta (diciassettemilacinquecentoventi ore di tragitto), così da liberarsi dell’impegno e sgomberare prima del finale (d’altronde sessant’anni di una vita, si capisce, sono molti). Trascorsero le lune, tutto come da copione. Sul palco cominciarono a sfilare volti nuovi, migrazioni di policrome comparse dai caratteri somatici cangianti. L’evento inaspettato fece sussultare molti che, dubbiosi sulla trama, abbandonarono la sala per recarsi a un coffee-shop. Si fece, in via del tutto eccezionale, questo annuncio: « Gentili spettatori, vi preghiamo di restare ai vostri posti, lo spettacolo continua. Siamo lieti di annunciarvi il nuovo anno, il quinto della rappresentazione: un lustro intero insieme a voi. » Allora subentrò il tocco di genio. Comparve in fretta e furia una capanna sormontata da un faretto a cinque punte. Si aprirono i recinti delle bestie di un vicino luna-park, ne uscirono somari con i basti del colore dell’incenso, cammelli con la gobba d’oro giallo, funamboli sospesi, giocolieri. Seduto sulla paglia d’una greppia stava un bimbo con la barba trascurata, l’occhio fisso all’orizzonte. Ai lati – sei per parte – rimanevano in silenzio pubblicani e pescatori ed una tibia, punzecchiata da due sistri ed un tamburo, dipanava celestiali melodie. « Abba » chiese uno « come fare ad evitare questo giogo di balzelli? ». « Con l’amore » - disse Abba. « Abba » chiese un altro « come amare chi ti lega mani e polsi? » « Con il cuore » disse Abba. « Abba » chiese un terzo « cos’è il cuore? » « Quella cosa che se guardi non lo vedi ma perdendolo lo trovi » disse Abba. « Abba » fu il gran coro « Non capiamo. » « Si capisce con il cuore che non vedi » chiuse l’Abba. Poi spirò. La scena, fino allora recitata a perfezione, si increspò. Figuranti con licenza elementare reclamarono diplomi, laureati si impiccarono a dispersi sicomori. Un ragioniere di Cracovia perse il senno e peggiorò la situazione con il grido « Io tradisco! »; qualcuno si spogliò manifestando chiari segni di demenza ed un eunuco tessé lodi di un teatro circostante, proclamandone d’emblée l’apoteosi. Il tetto si squarciò, si ruppero le acque delle nubi ed inondarono la folla in un travaglio immenso di gocciole, cristalli in matrimonio greco senza sposa. Un fulmine colpì il suggeritore ed il gabbiotto si incendiò: le risme del copione svolazzarono fumanti – roghi alati. L’applauso, campana fragorosa di diagramma, salì, stette sospeso per tre giorni , poi decrebbe e si annientò, sciogliendosi in corpuscoli di vuoto. E fu per sempre. La morte del copione fu anarchia, da lì in avanti fu improvvisazione. Fu tanto divertente che ognuno perse il senso del trascorrere del tempo e questo, furbo gatto dalla coda di serpente, approfittò. Nell’anno ventiquattro, poltrona duemilionisettecentoventisei, fu rinvenuto il corpo del regista: la salma fu traslata di sei file per lasciare il posto ad altri. Nell’anno ventisei si aprì il processo per sedare il desiderio di vendetta delle genti: la morte del bambino con la barba suggeriva l’esistenza di congiura, come può morire un Abba di per se? Senza ragione? Il capro fu il gemello ben rasato, colpevole di avere argomentato col fratello dai mustacchi. Lo scranno del giudizio fu montato in fretta e furia e, presieduto da un albino di trent’anni, sormontava una giuria di zazzeruti originari di Guinea. « Fornisca le sue generalità » disse l’albino. « Gemello ben rasato » disse l’altro « fratello del gemello coi mustacchi » « L’accusa è di omicidio e istigazione alla tricofobia » sentenziò il primo « per tanto questa corte la condanna all’ordalia della pelliccia ed al confino illimitato » « Ben ti sta! » ghignò il gemello coi mustacchi. « Ben gli sta! » soggiunse la giuria. « Ma tu » disse il gemello ben rasato rivolgendosi al gemello coi mustacchi « forse ti scordi del destino che ci lega: siam siamesi, andrai al confino insieme a me! » Così si generarono fazioni, si avanzarono proposte: dividere i siamesi con la sega o accomunar loro le colpe per tagliar la testa al toro. Dibattiti, infinite petizioni e si scordò la causa del processo. Un certo Gilbert Gauss, attore anglo-tedesco, nell’anno trentadue stramazzò al suolo. Si attesero soccorsi ma gli autisti d’ambulanza risultarono dispersi. Nell’anno trentasette si creò una divergenza: le comparse reclamarono salari pari a quelli delle star, lo scontro poi sfociò in guerra civile. Contemporaneamente dilagò un’epidemia di nuovo morbo, contratto – questo il pubblico parere – da una tale Rosy Mizzi, figurante di Parigi con radici calabresi. Vi furono milioni di decessi e l’equilibrio salariale fu raggiunto. Nell’anno quarantuno, alle quattordici e vent’otto del due marzo – giovedì – un faro che si spense nel ventuno si riaccese a coordinate 12.13.22-16.17.09. Due anziani che sedevano lì accanto ebbero un ictus, un bimbo fu ustionato e reso cieco ed una gravida abortì. « Miracolo! Miracolo! » fu il grido della folla e scaturì una religione adoratrice del dio Sole. Un gobbo di passaggio, possessore di una scatola di fuochi, in breve fu iniziato a sacerdozio, assurto al vertice del culto e poi soppresso: martirio interessato, un Credo senza santi vale poco. Nel mentre, chilometri a sud-est del Dio incarnato, si ruppero due tubi di toilette: parte del palco fu sommersa e nacque un lago e questo, mescolandosi col sale dei pop-corn, divenne un mare. Gli autoctoni ne presero possesso e sulle carte fu denominato “Nostrum”, rivelando grande generosità screziata di innegabile altruismo. Il mare levò terra a molte genti, sfrattò generazioni di assetati, portò la carestia, tornò il dissidio. Comparvero velieri con i rostri, si fece guerra ai pesci, si aprirono le foche con coltelli pirateschi e fu un abisso da colmare. Servivano più terre, piattaforme di certezze, arcipelaghi di case. «Colmarlo con i sogni » fu proposto da qualcuno. Ma questi non fornivano lipidi, carboidrati o proteine. « Con la carne » fu deciso « con la carne e con il sangue ». Atolli come arterie, cartilagini di istmi, ammonticchiarsi di tessuto muscolare, barriere di ossicini, ruscelli di sudore, concrezioni di materia cerebrale: violenta geografia del mondo nuovo. Il fiato dell’angoscia salì al tetto condensandosi in oscura nuvolaglia ingravidata di rimorso e di rimpianto, rimorso per qualcosa, rimpianto di qualcosa, sentimento senza oggetto, frenesia, substrato di un peccato originale zavorrato di sfumata nostalgia. Ci fu mai, nel tempo addietro, un paradiso di letizia? Un’ Eldorado, un pane quotidiano, una sorgente inesauribile, perenne? Le nubi si disciolsero in un tuono, si entrò nella stagione delle piogge. Il mare si ingrossò, divorò lingue, tradizioni, inghiottì scrigni di tesori favolosi, scosse il mondo con i denti di marosi e lo scagliò nel controsenso più profondo, deturpandone per sempre i lineamenti, convogliando i suoi detriti in una maschera pietosa ed implorante, ossessionata dal perdono. I cirri scivolarono dal cielo, si torsero, pitoni vaporosi, ed inglobarono i faretti in una morsa dirimente. Si udì un singhiozzo antico: un rantolo di anziano agonizzante od un vagito cavernoso della terra graffiò l’aria. Ad uno ad uno si disfecero i gomitoli di luce e tornò il buio. Fine. Facciamo un passo avanti. Nel mese di Raddatz dell’anno 51, l’ottantasei per cento del pubblico era morto. Nessuno se ne accorse. Superstiti dormivano negli angoli, tra avanzi di cibarie rese fossili dal tempo, inamidate dalla trama senza fine. I tecnici del suono – decrepiti relitti doloranti – mancavano di udito. Così, non si sa ancora bene come, qualcuno si insinuò nella saletta di controllo e, impossessatosi dell’audio generale, criticò: « Va bene, adesso è tutto da rifare! Le prove generali son finite, adesso è l’ora della vera messa in scena. Però, mi raccomando, con più pathos! ». Seguì una risatina strascicata, uno sberleffo, scostumato come vecchio impertinente, scalpitante come giovane virgulto, troppo simile ad un bimbo con la barba trascurata. Vibrò un deciduo alito di brezza, si accesero le luci e fu il principio.
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