NEMO

Dopo qualche pausa, nascosta dietro ad aforismi più o meno famosi, eccomi qui.

Cosa avevo lasciato in sospeso? Ah, una piccolissima, insignificante opinione personale sul libro della Morante, l’isola di Arturo.

Un romanzo che profuma di mare, porta con sé la sua musica ed una storia coinvolgente che non mi ha mai annoiato.

Da dove parto? Dall’isola, ovviamente. PROCIDA.

Ammetto con vergogna che pur essendo napoletana, non ci sono mai stata e credo proprio che sarebbe  meraviglioso e suggestivo leggere questo libro all’ombra di un imponente scoglio procidano. Quindi non cercate nel mio post la descrizione dell’isola, che resterete molto delusi, anche perché sul web c’è tutto…magari fateci un pensierino per settembre, che c’è meno gente.

Se proprio non potete, non vi tormentate, perché mentre sfogliate le pagine del libro, sarete automaticamente proiettati sull’isola, dal momento che la Morante è bravissima ed efficacissima nelle sue descrizioni, assolutamente piacevoli e mai pesanti.

Saper descrivere bene nel momento giusto è una dote che apprezzo tantissimo e, basandomi sulla mia limitatissima esperienza di lettrice, raramente ho trovato nelle scrittrici.

Quando non conoscevo la storia, questo titolo, l’isola di Arturo, mi evocava un’atmosfera da fiaba, una storia di avventure di mare, quasi come quella vissuta da Robinson Crusoe, nato dalla penna di Daniel Defoe.

Il nome dell’autrice, però, Elsa Morante, imponente, letto tante volte in qualche rivista letteraria, nominata da critici famosissimi, mi dava un senso di pesantezza, di monumentalità, insomma la sentivo lontana, e, in parte per le occasioni mancate, in parte perché il nome non mi ispirava una folle simpatia - anche se non scelgo mai libri in base ai sentimenti che mi ispirano - non l’avevo ancora letto.

I protagonisti: Arturo Gerace, il padre Wilhelm, la matrigna (dolce) Nunziata.

Procida rappresenta non soltanto l’ambientazione, ma costituisce il simbolo dell’infanzia e dell’adolescenza “spensierata”di Arturo: un fanciullo che non ha mai conosciuto sua madre, morta per darlo alla luce, non ha mai visto una donna fin quando conosce un bel giorno la matrigna, non ha mai avuto amici della sua età con cui giocare e con cui crescere insieme, ma solo una fida cagnetta, dagli occhi dolcissimi che sembrano di preghiera, Immacolatella.

Non ha mai goduto degli affetti più elementari, le carezze, i baci di una madre … e di un padre?

Eccolo, il padre: un uomo bellissimo, a quanto pare, biondo, occhi  azzurri, il tipo nordico, insomma (sua madre era tedesca), tenebroso ed inavvicinabile che sembra dire “sono troppo duro per i sentimenti, lasciamoli alle donne” e che tratta il figlio quasi come se fosse un estraneo e preferisce i viaggi a lui.

Wilhelm non è mai a Procida, neppure quando decide di sposare l’ingenua e dolce Nunziata.

Arturo da grande vuole diventare come il padre: sogna grandi viaggi, conoscere nuovi mondi, conquistare imperi lussureggianti, “avere compagnie di prodi al suo comando”.

Ci sono punti in cui davvero si prova compassione per questo Arturo, violentemente bisognoso di amore, di riconoscimenti, com’è normale per tutti, a qualsiasi età. Che delusione però per lui sapere – ammetto anche per me - che questo bel tenebroso e misterioso padre in realtà è omosessuale! Altro che viaggi alla scoperta di nuovi mondi, come il povero Arturo saprà alla fine del romanzo, suo padre “non è il tipo da spostarsi troppo. Si sturberebbe, dal crepacuore. Lui è uno che viaggia sempre nelle medesime vicinanze. Sai le antiche mongolfiere frenate? Beh, lui è così…[…] si sa, la circumvesuviana: quella per lui, è un abbonamento…[…]

[continua]