TRA CIELO E TERRA

I TRIONFI: LA MORTE (14)


./. continuaDe profundis clamavi     Hegel, apice della modernità, ha orrore dell'immediatezza. Per lui solo ciò che è mediato dal lavorio instancabile dello spirito, è ammissibile nella Civitas Hominis. Perché tanto orrore, se non perché è null'altro che  il terrore angoscioso dei primordi? Perchè la condizione primeva, quella del silenzio della parola, è prepotentemente ritornata, dopo la distruzione della Civitas Dei. La mediazione: la coscienza si sobbarca il compito allora di ricostruire il mondo fuori dal dramma cristiano, fino a gravarla della necessità di giustificare Dio stesso, fino a far dire a Leibniz: "... ho cominciato a leggere (...) ogni specie di buoni autori, compiendo ogni sforzo per progredire nelle conoscenze che mi parevano più proprie ad allontanare quanto poteva offuscare l'idea della suprema perfezione che deve essere riconosciuta a Dio". Giacché un Dio imperfetto non può essere.     La tragedia della modernità fu che fuori dal dramma cristiano non v'era nulla: scardinato il mondo medioevale, sopravvivevano solo cocci. Cocci alla deriva nell'abisso senza fine dell'esistenza, dove la coscienza deve affrontare in solitudine la ricostruzione di un mondo. Ecco il senso della centralità onnivora della coscienza che comincia a manifestarsi agli albori della modernità: in solitudine assoluta, in un supremo raccoglimento, nel mare senza fine dell'esistenza, la coscienza deve dar luogo a un nuovo mondo.      Sopraggiungono i Riformatori e avvertono: quel Dio che stava a capo della gerarchia celeste, vertice della piramide luminosa del paradiso dantesco, è un'invenzione romana. Tutto da rifare anche qui. Dio che salva gli uomini, è incapace di salvare se stesso.