,/. CONTINUA L'uomo dal fiore in bocca "... Alla fine avevo saputo. Avevo chiesto troppo e mi avevano accontentato. Tumore al cervello: pochi mesi di vita. Il mondo mi era cascato addosso. Si era ingrigito tutto, tutto mi era diventato indifferente. La voce di mia moglie, che mi aveva accompagnato dallo specialista, mi giungeva da lontanissimo, quasi da un altro universo. Il mondo cui pensavo di appartenere - il mondo 'normale', quello di tutti gli altri uomini - era diventato d'improvviso un sogno atroce. Che volevo finisse prima possibile. Mi ritrovai solo nella desolazione più livida. Solo senza speranza. Solo senza possibilità di fuga, o di scampo, dalla tomba in cui ero d'improvviso precipitato. E cominciai a gemere. Come un bambino. E intanto sentivo di andare in pezzi, pezzi che nessuna forza più riusciva a tenere insieme. Mi ritrovai solo in un mondo gelido e senza luce. Nessun pensiero mi confortava e ogni sforzo intellettuale anzi, era un soffrire atroce e vano. La notte che passai prima di entrare in clinica, fu terrificante. Il buio non si dissolveva e il freddo non si attenuava. Più di tutto mi sentivo solo. Disperatamente solo. Attorno a me, solo i cocci del mio passato: le mie paure, i miei sensi di colpa, i miei rimpianti. Ed erano tanti da far spavento. Ecco chi sarebbero stati i miei unici compagni da quel momento. Ecco la mia dannazione, e forse anche per l'eternità, se eternità c'è.Nessun uomo, nessun dio, intravedevo all'orizzonte di quel mondo di desolazione e di morte. Tutte le immagini più orrende, gli orrori, i terrori, le assurdità, le mostruosità, che avevo conosciuto nella mia immaginazione, nelle letture che avevo fatto con la leggerezza dell'incoscienza, nella mia vita interiore fatta solo di parole e di concetti, si rovesciavano addosso a me come colpi di un maglio terribile.Ero solo, nudo, impotente, terrorizzato, angosciato, di fronte ai giorni che una sentenza implacabile mi aveva assegnato. Il buio della mia solitudine mi attanagliava lo stomaco: non riuscivo più a trovar pace con le mie ossa, con le mie vene, con i miei muscoli e i miei organi, con le mie manie, con la mia testa. Avrei voluto spezzare quell'involucro che mi imprigionava e urlare, urlare la mia disperazione, la mia desolazione, la mia paura, la mia nostalgia, i miei rimpianti. I miei libri, da sempre rifugio alla mia disperazione, mi facevano orrore. Non me la presi né con Dio né con gli uomini. Semplicemente, mi abbandonai alla disperazione. Una disperazione che col passare dei giorni, diventava sempre più nera, sempre più vorace e sempre più implacabile. Immagini cupe, sentori di arie maleodoranti e irrespirabili, ma soprattutto un senso di spossatezza opprimente che mi toglieva energia. A che vale parlare, fare, amare, correre, se poi alla fine tutto questo non farà alcuna differenza? se alla fine sarà come se nulla fosse stato? Ero solo. Come lo ero sempre stato. Come lo ero stato da bambino, quando nella penombra della povertà mi rannicchiavo in un angolo, o mi nascondevo per farmi cercare. E nessuno veniva a cercarmi. Come lo ero stato da ragazzino, quando abitavo in una casa ai limiti del mondo, lontanissimo da tutto e da tutti. Incapace di amare e di lasciarmi amare. Tutto quello che ero diventato, per gli altri ma anche per me, era stato pagato con prezzi inauditi di sofferenze e dolori. Avevo chiuso occhi, orecchie e cuore a ciò che mi suscitava emozioni; avevo chiuso in una tomba - la mia anima - tutto ciò che non potevo o non volevo dire. Ed era rimasto là a marcire.E le innumerevoli volte che avevo chiesto a me stesso cosa avrei fatto, come avrei condotto la mia esistenza, quando un improvvisa inquietudine mi assaliva, quando i miei rifugi soliti erano inadeguati - tutte quelle volte mi ritornarono alla mente. E anche tutte le volte che ero fuggito per non soffrire, per non godere, per non entrare in rapporto con un mondo che mi diveniva ogni giorno più estraneo, mi avvolgevano di tenebra e di notte. Inchiodato, avvitato ad una solitudine che non ero mai stato capace di spezzare, ora tutti i nodi venivano al pettine. Il pettine della morte.Una sera, seduto in poltrona più silenzioso e lacerato che mai, i miei bambini si avvicinarono a me, con un'espressione strana. Mia moglie, dietro di loro, con lo sguardo smarrito ma forte, come sempre, sembrava attendere qualcosa. I bambini mi saltarono sulle gambe, con fare guardingo. Sapevano che il loro papà era molto, molto ammalato. E il mio cupo silenzio di quei giorni doveva averli convinti dell'estrema gravità della cosa. - Papi -, mi sussurrarono, - ti vogliamo bene e non ti lasceremo mai -. Mi schioccarono un bacio e scapparono via, come intimoriti. Mia moglie piangeva in silenzio.Io li osservai smarrito, senza più capire nulla. Mia moglie si sedette sul bracciolo della poltrona e mi abbracciò, sussurrando: - Ti voglio bene. Non ti lascerò mai.
I TRIONFI: LA MORTE ULTIMA PARTE
,/. CONTINUA L'uomo dal fiore in bocca "... Alla fine avevo saputo. Avevo chiesto troppo e mi avevano accontentato. Tumore al cervello: pochi mesi di vita. Il mondo mi era cascato addosso. Si era ingrigito tutto, tutto mi era diventato indifferente. La voce di mia moglie, che mi aveva accompagnato dallo specialista, mi giungeva da lontanissimo, quasi da un altro universo. Il mondo cui pensavo di appartenere - il mondo 'normale', quello di tutti gli altri uomini - era diventato d'improvviso un sogno atroce. Che volevo finisse prima possibile. Mi ritrovai solo nella desolazione più livida. Solo senza speranza. Solo senza possibilità di fuga, o di scampo, dalla tomba in cui ero d'improvviso precipitato. E cominciai a gemere. Come un bambino. E intanto sentivo di andare in pezzi, pezzi che nessuna forza più riusciva a tenere insieme. Mi ritrovai solo in un mondo gelido e senza luce. Nessun pensiero mi confortava e ogni sforzo intellettuale anzi, era un soffrire atroce e vano. La notte che passai prima di entrare in clinica, fu terrificante. Il buio non si dissolveva e il freddo non si attenuava. Più di tutto mi sentivo solo. Disperatamente solo. Attorno a me, solo i cocci del mio passato: le mie paure, i miei sensi di colpa, i miei rimpianti. Ed erano tanti da far spavento. Ecco chi sarebbero stati i miei unici compagni da quel momento. Ecco la mia dannazione, e forse anche per l'eternità, se eternità c'è.Nessun uomo, nessun dio, intravedevo all'orizzonte di quel mondo di desolazione e di morte. Tutte le immagini più orrende, gli orrori, i terrori, le assurdità, le mostruosità, che avevo conosciuto nella mia immaginazione, nelle letture che avevo fatto con la leggerezza dell'incoscienza, nella mia vita interiore fatta solo di parole e di concetti, si rovesciavano addosso a me come colpi di un maglio terribile.Ero solo, nudo, impotente, terrorizzato, angosciato, di fronte ai giorni che una sentenza implacabile mi aveva assegnato. Il buio della mia solitudine mi attanagliava lo stomaco: non riuscivo più a trovar pace con le mie ossa, con le mie vene, con i miei muscoli e i miei organi, con le mie manie, con la mia testa. Avrei voluto spezzare quell'involucro che mi imprigionava e urlare, urlare la mia disperazione, la mia desolazione, la mia paura, la mia nostalgia, i miei rimpianti. I miei libri, da sempre rifugio alla mia disperazione, mi facevano orrore. Non me la presi né con Dio né con gli uomini. Semplicemente, mi abbandonai alla disperazione. Una disperazione che col passare dei giorni, diventava sempre più nera, sempre più vorace e sempre più implacabile. Immagini cupe, sentori di arie maleodoranti e irrespirabili, ma soprattutto un senso di spossatezza opprimente che mi toglieva energia. A che vale parlare, fare, amare, correre, se poi alla fine tutto questo non farà alcuna differenza? se alla fine sarà come se nulla fosse stato? Ero solo. Come lo ero sempre stato. Come lo ero stato da bambino, quando nella penombra della povertà mi rannicchiavo in un angolo, o mi nascondevo per farmi cercare. E nessuno veniva a cercarmi. Come lo ero stato da ragazzino, quando abitavo in una casa ai limiti del mondo, lontanissimo da tutto e da tutti. Incapace di amare e di lasciarmi amare. Tutto quello che ero diventato, per gli altri ma anche per me, era stato pagato con prezzi inauditi di sofferenze e dolori. Avevo chiuso occhi, orecchie e cuore a ciò che mi suscitava emozioni; avevo chiuso in una tomba - la mia anima - tutto ciò che non potevo o non volevo dire. Ed era rimasto là a marcire.E le innumerevoli volte che avevo chiesto a me stesso cosa avrei fatto, come avrei condotto la mia esistenza, quando un improvvisa inquietudine mi assaliva, quando i miei rifugi soliti erano inadeguati - tutte quelle volte mi ritornarono alla mente. E anche tutte le volte che ero fuggito per non soffrire, per non godere, per non entrare in rapporto con un mondo che mi diveniva ogni giorno più estraneo, mi avvolgevano di tenebra e di notte. Inchiodato, avvitato ad una solitudine che non ero mai stato capace di spezzare, ora tutti i nodi venivano al pettine. Il pettine della morte.Una sera, seduto in poltrona più silenzioso e lacerato che mai, i miei bambini si avvicinarono a me, con un'espressione strana. Mia moglie, dietro di loro, con lo sguardo smarrito ma forte, come sempre, sembrava attendere qualcosa. I bambini mi saltarono sulle gambe, con fare guardingo. Sapevano che il loro papà era molto, molto ammalato. E il mio cupo silenzio di quei giorni doveva averli convinti dell'estrema gravità della cosa. - Papi -, mi sussurrarono, - ti vogliamo bene e non ti lasceremo mai -. Mi schioccarono un bacio e scapparono via, come intimoriti. Mia moglie piangeva in silenzio.Io li osservai smarrito, senza più capire nulla. Mia moglie si sedette sul bracciolo della poltrona e mi abbracciò, sussurrando: - Ti voglio bene. Non ti lascerò mai.